Regia di Sidney Lumet vedi scheda film
Network si presenta, a prima vista, come una lucida (anche troppo forse) invettiva contro lo strapotere della televisione, mezzo capace di lobotomizzare masse inermi di persone, vittime ignare di un sistema mediatico più grande di loro.
A me invece pare (per quanto capisco che possa sembrare - solo in apparenza però - l’eterno dilemma di cosa sia nato prima tra l’uovo e la gallina) che la questione si ponga in termini diametralmente opposti. E’ il pubblico dei telespettatori (uno e indivisibile - tuona il presidente del network Jensen - a dispetto, già allora, d’ ideologie ormai decrepite e di superate divisioni politico-territoriali) a detenere il vero potere. A colpi di telecomando, esso soggioga il mezzo televisivo, costringendolo ad assecondarne capricci e morbose curiosità, frantumando, così facendo, tabù e radicate moralistiche convenzioni sociali. Tant’è che quando questa “race to the bottom” sembra aver raggiunto il capolinea della decenza, sembra aver esaurito il suo carburante (perché né sanguinarie guerre lontane, né i pettegolezzi della vicina della porta accanto suscitano più l’onnivoro interesse dei telespettatori) il terrore di perdere quelle lucrose attenzioni fa uscire fuori dal piccolo schermo il suo istinto di sopravvivenza che lo obbliga a oltrepassare gli ultimi residuali limiti. La legge dell’audience, d’altronde, ammette tutto. Tutto può essere dato in pasto alla fameliche, insaziabili fauci del pubblico casalingo. Non più solo pezzi sparsi di realtà. Anche una vita intera se necessario. Inevitabile, quindi, che il dramma di Howard Beale si consumi in diretta TV; certamente l’unico ad essere ammazzato per bassi indici d’ascolto. Uno dei tanti, invece, ad essere immolato sull’altare del dio denaro (l’unica, universale “forza primordiale della natura” stando sempre alle parole di Jensen).
In definitiva, a mio modesto parere - per quanto mi rendo conto che possa apparire paradossale - il bersaglio di Quinto potere è stato tutto fuorché la televisione (la cui unica colpa sta nelle straordinarie potenzialità). Piuttosto, a 36 anni di distanza, è più sacrosanta che mai una sincera, umana autocritica.
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