Regia di Sidney Lumet vedi scheda film
"La televisione non è la verità! La televisione è un maledetto parco di divertimenti, la televisione è un circo, è un carnevale, una troupe viaggiante di acrobati, cantastorie, ballerini, cantanti, giocolieri, fenomeni da baraccone, domatori di leoni, giocatori di calcio! Ammazzare la noia è il nostro solo mestiere."
Ancora oggi è forse il più feroce e caustico attacco sferrato dal cinema contro la televisione. Per i suoi detrattori è enfatico, sensazionalistico, rozzo, il che non è del tutto falso. "Quinto potere" (l'indovinato titolo italiano si ricollega al capolavoro di Orson Welles, incentrato sulla carta stampata di cui la televisione - quinto potere appunto - rappresenta l'evidente degenerazione) è soprattutto un pamphlet furibondo, intelligente, velenoso e premonitore, consapevolmente sopra le righe e di parte, certo a tratti eccessivo, ridondante e fin troppo gridato, ma capace di declamare con efficacia alcune verità inconfutabili (regista e sceneggiatore hanno affermato che il film non è stato pensato per essere una satira, ma un attendibile riflesso di quello che sta veramente accadendo). E in effetti "Quinto potere" sembra un'opera scritta oggi per quanto è attuale e moderna (si pensi, per esempio, al primo, celebre, monologo con cui Howard, parlando del clima di paura ed inquietudine che attanaglia la gente, incolla allo schermo i suoi telespettatori, invitandoli ad alzarsi e a gridare dalle finestre "Sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più!"). Dal ruolo sempre più invasivo di una televisione che "è il vangelo, la rivelazione suprema" tanto da decretare "il successo o l'insuccesso di presidenti, papi e primi ministri", capace di trasformare gli spettatori in umanoidi inerti, alla visione di una società che non è altro che "un insieme di corporazioni regolato inesorabilmente dalle immutabili leggi degli affari" come pontifica solennemente Arthur Jensen, presidente della società che controlla la UBS dove lavora Howard Beale. Dalla paura degli arabi che tutto possono comprare al ritratto spietato e durissimo di chi giuda un network, assorbito dal lavoro, ossessionato dall'auditel, divorato dall'ambizione. Il personaggio della manipolatrice e cinica Diane Christensen, cui dà volto un'efficace ed incisiva Faye Dunaway sarà pure caricaturale quanto si vuole (si pensi all'ironica ed assai spiritosa sequenza del week end romantico con Max in cui la donna non fa altro che parlare dei suoi progetti lavorativi, persino nel momento del rapidissimo orgasmo), ma coglie nel segno. Diane sa quello che vuole e soprattutto sa come ottenerlo e come convincere gli scettici a seguirla: "parliamo ad un pubblico che va da 30 a 50 milioni di spettatori a puntata. Meglio che andare per le strade del ghetto a distribuire volantini ciclostilati" dice alla recalcitrante Lauren Hobbs (personaggio ispirato alla celebre attivista comunista di colore Angela Davis) per convincerla a prendere contatti con un gruppo paraterrorista la cui partecipazione è fondamentale per realizzare un nuovo programma scandalistico. Diane, il cui modello di vita è Bugs Bunny, a detta di Max, è consapevole che "il popolo americano ormai è apatico. E' stato bombardato con il Vietnam, il Watergate e l'inflazione. Ha staccato la spina, si è inebetito. Niente più lo scuote. Vuole qualcuno che esprima la sua rabbia." Per questo cerca di spremere al massimo il fenomeno dell'anchorman furioso Howard Beale, visto addirittura come "un dio istantaneo, un profeta moderno, una figura messianica che inveisce contro le ipocrisie del nostro tempo, un Savonarola in onda a puntate nei giorni lavorativi", salvo poi scaricarlo brutalmente nel momento in cui il suo appeal sul pubblico cala in modo vertiginoso, mettendo seriamente a repentaglio il successo della sua rete (la riunione finale tra i dirigenti della tv, impegnati a decidere a tavolino il destino di Beale, optando poi per la soluzione più estrema, mette i brividi per quanto è sconvolgente nella sua credibilità). La personale ed ironica presentazione che Diane fa di sè, durante la prima cena con Max, è formidabile, un illuminante ritratto di donna/squalo manager, "indifferente alla sofferenza, insensibile alla gioia" come le dice Max mentre sta per lasciarla: "Sembra che io abbia un temperamento maschile. Mi eccito velocemente, consumo velocemente e non vedo l'ora di rivestirmi e uscire dalla camera da letto. Sono una nullità in tutto eccetto che nel mio lavoro. Sono brava nel mio lavoro, perché mi limito a quello. Nella vita voglio solo arrivare al 30% di share e a un indice di 20 punti!" Dialoghi al vetriolo scritti da Paddy Chayefsky (già due volte Oscar per "Marty, vita di un timido" e "Anche i dottori ce l'hanno"), regia serrata come se fosse un tesissimo thriller (Lumet veniva dai trionfi di "Serpico" e "Quel pomeriggio di un giorno da cani"), attori in stato di grazia. Oltre alla già citata Faye Dunaway ed agli ottimi William Holden, Peter Finch, Robert Duvall e Ned Beatty, da segnalare Beatrice Straight, nel brevissimo ruolo di Louise, la moglie tradita di Max. In scena per meno di sei minuti (precisamente 5 minuti e 40 secondi), peraltro assai intensi e nei quali sfoga tutta la sua rabbia ed il suo dolore per il tradimento del marito, alle prese con la classica infatuazione di mezza età, "l'ultimo impeto della passione prima della vecchiaia", l'attrice è riuscita a conquistare l'Oscar come migliore non protagonista, un vero record. Cast tecnico di tutto rispetto: montaggio di Alan Heim e scenografie di Philip Rosenberg (per entrambi l'Oscar arriverà tre anni dopo per "All that jazz"), fotografia di Owen Roizman (sue le luci di tre classici degli anni settanta come "Il braccio violento della legge", "L'esorcista" e "I tre giorni del condor"). 4 Oscar (Dunaway, Finch - premio postumo essendo l'attore morto prima di riceverlo a causa di un infarto - Straight e Chayefsky per la sceneggiatura) e altre 6 nomination (Holden, Beatty, fotografia, regia, film, montaggio), 9 nomination ai Bafta, 5 ai Golden Globes (vinsero la regia di Lumet, la sceneggiatura di Chayefsky, Faye Dunaway e Peter Finch), David di Donatello a Faye Dunaway quale migliore attrice straniera. Piccola curiosità: Henry Fonda ha rifiutato il ruolo di Howard Beale, definendolo "troppo isterico". Ad oggi è il solo film, insieme a "Un tram che si chiama desiderio", ad avere vinto 3 Oscar per gli attori. Fra i tanti dialoghi da segnarsi, per ironia vanno citati almeno una battuta di Howard ("Non sto dicendo che i comunisti andranno al potere: loro stanno peggio di noi!") e il primo incontro tra Diane e l'attivista Lauren Hobbs: "Una razzista serva degli imperialisti del potere" si presenta Diane. "Un'arrogante negra comunista" è invece la presentazione di Lauren. "Ottime basi per una solida amicizia!" Quanto invece pesa oggi, anche e soprattutto in Italia, l'affermazione di Howard Beale secondo cui "la tv è la forza più terrificante di questo mondo senza Dio. Poveri noi se cade in mani sbagliate!" I posteri hanno già emesso la loro ardua sentenza: la realtà ha tristemente superato la fantasia. E in ogni caso siamo ben lontani da quel mondo perfetto "in cui non ci saranno guerre, né carestie, né oppressioni o violenza!" tanto agognato da Jensen. Da vedere insieme a "La morte in diretta" interessante ma incompiuto film di Bertrand Tavernier.
Voto: 7+
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