Regia di Sidney Lumet vedi scheda film
Potremmo stare ore a parlare della messa in scena claustrofobica di Lumet in un film ambientato quasi esclusivamente in interni, delle interpretazioni attoriali di un cast in stato di grazia e della valorizzazione a fini quasi orrorifici (d'altronde il direttore della fotografia Owen Roizman aveva lavorato appena due anni prima a L'esorcista) di ogni elemento scenografico (dagli schermi alle lampade, dagli specchi ai letti, dai microfoni ai giornali per arrivare alle finestre che non aprono sul mondo ma che, al contrario, si rivelano cornici di una disperazione alienata universale).
Tutto vero, tutto giusto
Ma non ricordavo quest'aria infernale da teatro elisabettiano, questa costruzione drammaturgica per lunghi monologhi che si avvicendano l'uno all'altro, quasi come inscalfibili blocchi monolitici che restituiscono l'amarezza di un mondo in cui le leggi della democrazia sono state sostituite dalle leggi del mercato e in cui la solitudine la fa padrone tanto nell'arrivismo di chi accetta le regole (Faye Dunaway e Robert Duvall eccezionali) quanto di chi ha ormai vissuto intensamente ed accetta il viale del tramonto (e chi si poteva scegliere se non William Holden?), tanto di chi occultamente tiene in mano i fili di questo grossolano e pericoloso spettacolo mediatico (Ned Beatty) quanto di chi viene sfruttato a proprio piacimento (Peter Finch) per poi essere brutalmente messo da parte, anche con gesti estremi.
E se tutto quello che Lumet e lo sceneggiatore Paddy Chayefsky raccontano era vero in un'epoca in cui la televisione era un oggetto fisso non portatile, figuriamoci oggi in cui piccoli schermi e spettacoli ributtanti sono a portata di tasca e di connessione Internet senza alcun tipo di filtro, controllo genitoriale o ancor meno editoriale
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta