Regia di Damiano Damiani vedi scheda film
Il tortilla-western inizia proprio da qui. L’ambientazione passa dalle selvaggie praterie western, al deserto messicano; passa dal tipico villaggio di frontiera con tanto di sceriffo corrotto e banditi al potere, alle povere quattro case dei peones tiranneggiati dal padrone o dal Generale di turno; passa dal mito dell’uomo solitario contro tutto e tutti, all’antieroe rivoluzionario. Purtroppo il limite dei film di questo filone è proprio il loro elemento caratterizzante: la troppa politica. Gli ideali rivoluzionari, che sono una proiezione dei fermenti politici degli ultimi anni ’60, legano troppo il film ad una natura più civile ed impegnata, che a quella evasiva tipica del cinema. Sappiamo che col genere cinematografico puoi veicolare critiche e contenuti che altrimenti si banalizzerebbero, ma è anche vero che il genere, più di tanto altro cinema, aiuta a tradurre in immagini tutto il nostro essere, e che è proprio la funzione principale dell’arte. Là dove non può arrivare una traduzione razionale e matematica della nostra vita-che-non-si-vede, là ci arriva proprio l’arte. E il cinema è una delle arti che meglio vi riescono. Purtroppo veicolare motivi politici snaturano questa universalità. Ma ciò che permette agli spaghetti-western, e ai tortillas in particolare, di staccarsi da questo limite, è proprio il fatto che sono dei western. Immensi spazi aperti, l’uomo solitario, le corse a cavallo, un falò e un tetto di stelle, un duello con il cattivo, l'amicizia virile, l’amore che aspetta da qualche parte: tutto questo ci fa vivere in un sogno. Tutto questo ci porta su quel ponte ideale che raccorda la nostra vita reale con quella immaginifica, che è poi quella che ci permette di capirci.
Qui, Damiano Damiani, usa uno straordinario Gian Maria Volontè, nel ruolo del rivoluzionario El Chuncho, per rappresentare quel mito sporco e “anti”, che sì vuole il suo denaro (come molti antieroi western da Eastwood in avanti ci hanno insegnato), ma vuole e pretende pure l’ideale. E il finale, bellissimo, in cui uccide l’americano Lou Castel, non è solo il prevedibile gesto di un rivoluzionario verso l’immagine dell’affarismo, ma è la dichiarazione di amore di Volontè al suo personaggio. El Chuncho e l’americano si erano veramente affezionati, e credevano nella loro amicizia virile e improvvisa: si salvavano a vicenda. Eppure ecco che il vero cattivo (Castel), spregiudicato nell’affarismo, passa dall’altra parte della strada, e lascia al romantico rivoluzionario, sogno e mito di molti, lo scomodo ruolo di outsider. Ma questo non allontana assolutamente lo spettatore dal personaggio di El Chuncho, ma ne rafforza l’affetto.
Nel cast anche l’inarrivabile genio di Klaus Kinski, qui poco usato. Ma le sue poche scene, sono una delizia per chi come me lo ama alla follia. Una su tutte, quando vestito da frate, termina la sua benedizione lanciando bombe a mano sui rurales.
“Quien Sabe?” rimane un film epico, che come quasi tutti i western migliori ti entra dentro e non se ne va via più. Perché? Perché il western, come l’horror, ha questo potere poetico ed evocativo e immortale? Perché? ...Quien Sabe? Chi lo sa?!
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