Regia di Peter Jackson vedi scheda film
Andata e ritorno, secondo un percorso circolare: come un anello. Se i precedenti capitoli di Lo Hobbit sembravano – forzatamente – ripercorrere i passi vincenti di Il signore degli anelli, La battaglia delle cinque armate fa da ponte con la prima trilogia, ma prendendo una via più indipendente. Anche perché il conflitto del titolo non è mai stato descritto nel dettaglio da Tolkien, dunque Jackson è libero di rovesciare, sulla spianata che separa il monte Erebor dalla città di Dale, una poliedrica quantità di masse, mostri, creature, invenzioni visive, in un gioco serrato di mosse e contromosse, strategie di combattimento e assalti a sorpresa, duelli ed esplosioni. La pellicola più breve di Lo Hobbit è anche la meno discontinua: ha un incipit mozzafiato, che chiude la questione Smaug, dopodiché avanza con gravitas e grandeur verso uno scontro complesso ma ritmato, intrecciando dilemmi etici, echi shakespeariani (la pazzia di Thorin Scudodiquercia), melodrammi (quelli di Tauriel e Legolas, di cui avremmo fatto a meno), atti d’eroismo semplice e cruciale (Bilbo si conferma il cuore del racconto, e Martin Freeman un grande interprete). Non per questo il film può dirsi riuscito: dieci anni fa l’estetica jacksoniana toglieva il respiro, oggi ha figliato proficuamente in forma sia cinematografica sia videoludica, e fatica seriamente a rivelarsi originale. Ma la nostalgia è l’essenza della Terra di Mezzo, e quella c’è tutta: andata e ritorno, possibilmente all’infinito.
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