Regia di Peter Jackson vedi scheda film
L’ultimo film della seconda saga Jacksoniana (prima tolkieniana, ammesso che dello spirito di Tolkien sia rimasto qualcosa) giunge al fatidico appuntamento col destino dei suoi prodi eroi col fiato corto, incespicando ed arrancando proprio in dirittura d’arrivo, quando il traguardo era a portata di mano. Eppure scade il tempo del riscatto senza che le promesse (disseminate in abbondanza lungo tutto il tragitto percorso) di una degna, epica conclusione della saga sequel/prequel di ISDA possano dirsi mantenute.
Numerose le cause della delusione (non cocente, ma comunque inaspettata).
Allungare il brodo per infarcirlo di superfluo (e sfrondando il necessario) catapulta subito l’avventura su Pontelagolungo, ormai segnata (ergo) in preda all’isterismo collettivo per l’implacabile devastazione (e desolazione) di Smaug; una parentesi, la sua (fra due titoli: “Lo Hobbit” e “La battaglia delle cinque armate”) del tutto inevitabile (almeno qui un po’ di fedeltà al soggetto), ma dolorosa, se si pensa a cosa viene dopo.
Guerra. Solo tragica, dolorosa, mortale guerra… eppure catalizzatore di tutto (ma proprio tutto; ma d’altronde, il sottotitolo risultava già parecchio eloquente al riguardo). Salvo lo spazio pervicacemente ritagliatosi dai penosi siparietti del viscido Alfrid (Ryan Gage) e da diversi stati d’animo; alcuni pertinenti (follia, fratellanza e riconciliazione); altri decisamente no (ah, l’amore! Quanti danni può fare in/ad un film del genere? Perché ancora insistere sulla stiracchiatissima love story fra l’ “elfo femmina” ed il latin lover della compagnia nanesca quando tutto rema in un altro verso? Mah!).
Intanto coordinate spazio-temporali ridotte a brandelli ed una soundtrack decisamente sotto tono (H.Shore non aggiunge davvero alcunché al suo repertorio; che peccato!) traghettano la narrazione nel mezzo di una caotica carneficina dalla quale si propaga il rumore sordo della battaglia e nella quale si consumano le trovate più discutibili di tutto il film. Merito (?) delle coreografie belliche (sempre molto “ardite”) del buon Legolas (O.Bloom) che riesce a superare sé stesso e la celeberrima bravata con l'olifante (ancora difficile da mandare giù, figuriamoci quella con Bolg!!),
Di tutt’altro genere, invece, le impressioni suscitate dallo scontro di Dol Guldur, decisamente la scena più riuscita. Le ombre spettrali dei “Nove” (più “una”, la più impattante) prendono vita ed impegnano finanche il povero C.Lee (in arte Saruman) in uno scontro vivido e suggestivo, che culmina con due tocchi di sapienza registica davvero efficaci.
1: piacevole è l’allusione ad un’epoca ancora a venire allorquando le dame elfiche (la medesima, nella fattispecie) avrebbero saputo rivelare tutta la tentazione dell’onnipotenza, trasfigurandosi, al contempo, in nemesi micidiali del seguace di Morgoth…
2: …come pure è piacevole scorgere, negli occhi di Saruman, un baluginio di quel piano nefasto che tramava da tempo (ovvero ergere la torre di Orthanc in contrapposizione a Barad-dûr). Un piano palesato apertamente solo due capitoli dopo (cronologia della Terra di Mezzo alla mano).
Invero due piccole gemme sperdute nella tempesta della battaglia che infuria altrove, alle pendici di Erebor…
...Dove tutto finisce, e muore; anche la speranza di poter assistere ad un film migliore (un finale del genere non è degno nemmeno del peggiore Harry Potter! Non so se l’edizione estesa avrà modo di rimediarvi, ma chi sarà tentato di acquistarla dopo la delusione di un’occasione sprecata ed una promessa tradita?).
Mai avrei pensato di osservare con commiserazione… no, non la follia degli occhi di Thorin (R. Armitage), bensì l’ultimo film di Peter Jackson. Un regista a cui devo davvero molto (molto, ma molto di più di quanto un qualunque spettatore debba a chi gli sta vendendo un buon prodotto d’intrattenimento), ma che stavolta, sì (benché più di un presagio era emerso nei capitoli precedenti), non ha raggiunto l’obiettivo. Non ha incantato. Non ha fatto battere il cuore. Non ha fatto credere di aver vissuto la più bella avventura della propria vita. Quella che si può vivere solamente al cinema (alle giuste condizioni). Non stavolta.
La sufficienza gliela devo, ma per tutto quello che NON è emerso da questo film.
Una sufficienza meritata altrove, ma pur sempre nel fantastico mondo di Arda (in un’epoca di poco successiva, vissuta qualche anno fa).
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