Regia di Gustavo Cova vedi scheda film
Gaturro, il micio argentino dal largo sorriso inventato dal disegnatore Nik, è approdato sul grande schermo, almeno dall’altra parte del mondo. Il fumetto, ambientato in un contesto metropolitano e piccolo borghese, nella versione cinematografica trova il modo di accostarsi alla fantasmagorica spettacolarità delle saghe targate Disney e Marvel, con spunti supereroici e sentimentali supportati da coreografie hollywoodiane. Le peripezie compiute dal protagonista per diventare una star della tv e conquistare il cuore della gattina Agatha sono piene di estrosi elementi acrobatici, dalle dinamiche a dire il vero un po’ approssimative ed improbabili, ma di sicuro effetto su un pubblico di bambini amanti del genere. Personaggi ed oggetti volano attraverso l’aria sfidando audacemente la forza di gravità, e sacrificando spesso la prospettiva, il ritmo subisce innaturali accelerazioni, le idee, per quanto originali, sono distribuite un po’ a casaccio, però il quadro è complessivamente vivace, gustosamente caricaturale, ed aggraziato da una sensibilità psicologica utile a smussare la spigolosità della sceneggiatura. Quest’opera di animazione, spesso concitata e frettolosa nei passaggi narrativi, sembra concepita più che altro come una festa, in cui si gioca con la fortuna e la sventura, l’allegria e la tristezza, cambiando lo scenario con un battito di mani, che chiude una parentesi e ne apre un’altra in cui il discorso ricomincia daccapo: così il luccicante miraggio della celebrità sfuma nella grottesca ironia di un’invasione di pulci, e la romanzesca crudeltà di un amore negato si risolve in un gran finale a base di inseguimenti a rotta di collo e robot telecomandati. In questa storia, un po’ arruffata e a tratti tirata per i capelli, il mondo dei cartoni si raduna per riproporre i suoi schemi più classici, dalla rivalità maschile tra il fusto e lo sfigato, alla vecchia maliarda che interpreta il ruolo della cattiva, con, in sottofondo, l’usuale riflessione sul vero senso della felicità. Il bene trionfa dopo tanti passi falsi e tra mille incertezze, in un percorso ad ostacoli in cui la vanità è la principale fonte di guai. Se lo scopo del film è l’intrattenimento puro e spensierato, la struttura ad episodi indica un desiderio di complessità che, però, purtroppo, quasi mai riesce ad evadere dai confini di un citazionismo antologico, al quale gli autori mancano di imprimere la loro impronta personale. La minestra riscaldata ha un vecchio sapore familiare, ed è servita con la voglia di fare piacere ai commensali, ma il gesto cortese è tanto carico di entusiasmo quanto viziato da una certa imperizia. L’intenzioni sono sincere, il buon umore è garantito, e il risultato sarebbe perfetto se solo non si avvertisse l’assenza di quel prezioso tocco d’artista capace di trasformare la semplice immaginazione infantile in un bellissimo sogno a colori. La favola dai toni moraleggianti e dal lieto fine è l’intramontabile schema di riferimento, che qui, per quanto rispettosamente omaggiato, soffre un po’ per una sete di novità rimasta inappagata.
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