Regia di Alejandro Jodorowsky vedi scheda film
Il gigantesco volto di Jodorowsky che viene proiettato in una pioggia di monete "fantasmatiche" che "non sono ormai troppo diverse, come il denaro, dalla coscienza, e dalla morte" preannuncia il tono tra l'allegorico e il puro grottesco che si estende per l'intera durata de La danza de la realidad, amarcord di un anziano autore la cui regia "invasata" ha in qualche modo segnato un'intera epoca cinematografica, pur con tutti i dubbi che girano attorno alla qualità delle sue pellicole, tutt'ora (Santa Sangre, La montagna sacra, El Topo, per citarne alcune). Con questa sua ultima fatica (che, purtroppo, si rivela fatica anche per lo spettatore) permette a chi guarda di dare un'occhiata ai suoi ricordi, soggetti a un bizzarro e distorto processo di idealizzazione genuinamente infantile e immaturo, che però non si preclude scandagli profondi di aspetti umani più "adulti" (il sesso, la politica, la satira violenta ed estrema contro le istituzioni sociali). Questo viaggio che Jodorowsky compie nel bel mezzo delle vecchie sagome in bianco e nero della sua tormentata e tragicomica infanzia è dunque, certo, un miscuglio irregolare di stralci autobriografici, una lettura "romanzata" dei suoi ricordi, del suo passato da cui mestamente si allontana, come se una parte di sé sopravvivesse pur nella constatazione della perdita di qualcosa; però è anche un'occasione per divagare e disperdersi nei due personaggi principali oltre al piccolo protagonista, ovviamente i genitori, il padre rivoluzionario comunista ebreo che cerca di impiantare nel figlio un po' fragile i precetti della virilità, e la madre, che si occupa del negozio di famiglia e ogni volta che pronuncia una parola la canta come si trovasse nel bel mezzo di un palcoscenico di lirica.
Risuona abbastanza invadente, negli interstizi dell'usurato gesto cinematico del regista cileno, il pressante tentativo di lanciare un messaggio, nonostante l'apparente candore labirintico dei suoi assurdi intrecci pseudo-narrativi. Per quanto tutto debba essere filtrato dallo sguardo infatile del sé bambino (o del sé attuale che cerca di comprendere il sé bambino), ciò non giustifica la grana grossa di moltissime riprese, talora leggiadre e pregne di quell'onirismo folle e (dis)incantato che tanto si apprezzava nelle sue vecchie opere, talora quasi sciatte e piatte, incapaci di alleggerire, quantomeno visualmente, la portata torrentizia delle suggestioni che vuole offrire. Ogni scena è quasi autoconclusiva, un sipario che rende il film episodico, frammentario, e non dotato di quella variabilità (di situazioni, di emozioni) tipica dei viaggi nella memoria, quella delicatezza entusiastica ma sottilmente autoterapeutica che può contraddistinguere le vere analisi di se stessi: sparando a zero su come abbia realizzato questo film soprattutto per se stesso (se anche non lo dice esplicitamente, sembra dirlo mettendosi in scena come fantasma onnipresente), finisce quasi per tenere troppo in conto ciò che il pubblico si aspetta da lui, e questo va ad inficiare sulla supposta spontaneità della messa in scena.
Non si fraintenda, La danza de la realidad è un film sentito e sincero, anche troppo sincero, ma gli sbrodolamenti ricorrenti e l'eccessiva durata permettono prima una curiosa nuova immersione nell'immaginario psicomagico del suo cinema e della sua arte, e poi la lenta acquisizione di quei ridondanti stilemi come forme manierate di un linguaggio invecchiato e morente. Del carattere ribelle del gesto artistico, punto su cui gran parte del film sembra soffermarsi (vedasi il padre rivoluzionario, che però non riesce a portare a termine il suo intento mandando in polvere i suoi stessi valori di fronte agli occhi del figlio desideroso della sua stima), Jodorowsky si dimentica presto, e il film diventa più un capriccio ripiegato un po' troppo sull'arma dell'ironia o della trovata, che non una seria e magari disomogena disamina delle proprie ossessioni e delle proprie contraddittorie emozioni. Da un lato, la voglia di credere all'irrazionale che gli impianta la madre, dall'altro l'abitudine al coraggio e alla freddezza materialistica che gli comunica il padre. Su un fronte, la leggerezza della solidarietà che diviene vittima dei commenti razzisti dei suoi coetanei, sull'altro fronte, i suoi improvvisi atti ribelli contro un mare che saprà rispondere uccidendo un'intera fauna marina di pesci nella sequenza più efficace e curiosa della pellicola. Il gioco di antipodi, di motori opposti incapaci di generare equilibrio, e abili solo a sommergere il protagonista in un'ancora maggiore confusione (osservata dall'alto come comprensiva, fisiologica, naturale), si consuma in poche scene realmente interessanti, ma si disperde nell'intera digressione sul padre e sull'attentato fallito, con quelle mani che si bloccano, che lo costringono a una punizione, alla tortura, a un attacco da parte di una processiona nazista, a una perdita di memoria con cui saprà spezzare il cuore di una nana gobba, e a un'altra serie di assurdi eventi che appesantiscono l'intero brodo e fanno rigirare sulla poltrona lo spettatore che vuole in qualche modo che il film "quagli" e arrivi finalmente a una svolta.
Ma la svolta c'è già stata, e il carattere programmatico di un finale che suona come testamento registico (con quei manichini in bianco e nero di tutti i personaggi della storia) destina La danza de la realidad alle curiosità più amene che intellettuali, che possono incuriosire sì e no una volta, e che non viene voglia di riesplorare in futuro.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta