Regia di Jean-Luc Godard vedi scheda film
Il film coglie la realtà nelle sue componenti anche contraddittorie con un linguaggio non solo funzionale alla visione del mondo che il film propone (prendere la vita com’è, accostarne le componenti, studiarne le combinazioni possibili) e definisce anche il rapporto innovativo che qui si crea fra parole e immagine
Il film ed il regista
“Questo film è un’avventura intellettuale. Ho infatti cercato di filmare un pensiero in movimento (…) L’ideale per me sarebbe stato quello di ottenere subito quel che serve, senza ritocchi. Se ce ne fosse stato bisogno voleva dire che il film era sbagliato. L’immediato è il caso. E nello stesso tempo è definitivo. Quello che voglio io è appunto il definitivo per caso. (Jean-Luc Godard).
Parto volutamente da queste importanti dichiarazioni del regista perché a mio avviso mettono in evidenza come meglio non sarebbe stato possibile fare, quelli che saranno poi i più importanti elementi di novità della pellicola nell’ambito del suo percorso artistico di grande innovatore dei linguaggi e del modo di intendere e fare cinema, quando nel 1962, decise di adattare per lo schermo con questo Vivre sa vie (Questa è la mia vita qui da noi in Italia) i contenuti di un’inchiesta giornalistica ("Dove va la prostituzione?") di MarcelSacotte che nelle sue mani diventerà un illuminante pretesto anche (e soprattutto) per parlare di altro.
La sua è dunque un’affermazione programmatica che troverà però pieno riscontro nell’esito finale del girato di questo suo nuovo, stimolante capolavoro.
Più che nei suoi film precedenti infatti, al fine di rendere palese questa sua primaria necessità narrativa, il regista presta una particolare attenzione proprio alla forma e alla costruzione del racconto. Non è però solo questa la novità poiché decide anche di operare in una maniera per lui inusuale (ricordo che siamo nel 1962) anche per quel che riguarda le modalità delle riprese che non solo vengono effettuate in tempi brevissimi, ma addirittura seguendo pedissequamente l’ordine cronologico della storia per poi montarle a blocchi senza il bisogno di alcun missaggio utilizzato solo per alcuni brevi passaggi di collegamento.
Si potrebbe parlare allora di un vero e proprio gesto di sfida alle convenzioni cinematografiche o addirittura di una proposta di anticinema (decisamente avanguardistica rispetto a quello che si produceva allora).[1]
La pellicola è composta da dodici quadri, tutti di breve durata, introdotti (come accadeva già nel cinema muto)da didascalie esplicative ed è ancora Godard a chiarircene le motivazioni: “La divisione in quadri accentua il coté teatrale, brechtiano. In questa specie di progressione ideale anche stilistica verso un ipotetico melodramma, la fine del film (l’ultimo quadro) doveva dunque essere, ancor più degli altri, molto “caricato” come se si trattasse di una scena madre. Ed è proprio in funzione di questo obbiettivo che il film procede con una successione di schizzi che sembrano annunciare il dramma o anche la tragedia, ma sempre e solo come se si fosse sulle assi di un palcoscenico: bisogna insomma lasciar vivere la gente, non guardarla per lungo tempo, altrimenti si finisce per perdere il filo e non comprendere più niente perché l’impalcatura ha ceduto e sono rimaste solo le macerie[2]
Le intenzioni del regista sono palesi fin dalla prima scena che viene immediatamente dopo i titoli di testa (che passano in sovrimpressione su tre primi piani - un profilo sinistro, un piano frontale e un profilo destro -) della splendida Karina). Subito dopo arriva un piano-sequenza di quasi sette minuti girato in un caffè che ci mostra due persone riprese di schiena (Nanà e Paul) che parlano fra loro di persone e cose (che a noi spettatori ancora non è dato di conoscere) e tutta la scena è girata come se si fosse davvero sulle assi di un palcoscenico. A rendere palese questa impressione, contribuisce anche il sonoro (il rumore dell’ambiente che disturba le parole). Anche gli attori però fanno la loro parte. Nel muoversi artefattamente infatti, assumono posizioni prospettiche che sembrano voler rispettare moduli e direttrici che sono tipiche del teatro.
E tutto questo mentre Paul, in una delle prime battute del lungo dialogo che si svolge fra i due, come in una specie di contraddizione verbale, mostrandosi critico verso Nanà aveva detto testualmente: “Non siamo mica a teatro” (come se Godard volesse così sottolineareuna distanza autonoma da quella che potremo definire la realtà visiva trasmessa dallo schermo).
Si potrebbe dunque concludere citando le parole scritte a suo tempo da Alberto Farassino (il Castoro – La Nuova Italia - pag.51): “i personaggi che sono sullo schermo per lo spettatore che guarda dalla sala, sono indisponibili ad agire nella forma che per lui sarebbe più funzionale: sono totalmente autonomi. Vivono la loro vita ma ne rivelano solo frammenti quasi casuali, e questo diversamente da ciò che succede invece nel cinema tradizionale, anche quello più realistico che è sempre pensato e allestito in funzione della posizione mentale dello spettatore per non disturbarlo troppo”.
A questo punto, potremmo anche azzardare a dire che Vivre sa vie è il primo vero esempio del modello di straniamento discorsivo che poi sarà tipico (e caratterizzante) delle opere (almeno di quelle immediatamente successive) di Godard. I tanti brani che di tanto in tanto vengono letti (spesso con voce neutra dagli attori) fanno il resto: perfetti per creare quel distanziamento emotivo richiesto dal regista a chi guarda l’opera dalla sala (mi riferisco in particolare, alle interruzioni brusche - e spesso inaspettate - del flusso delle immagini che è uno dei tratti più qualificanti dell’opera).
Sinossi
La storia è semplice (e forse anche un po’ banale, se vogliamo). Si narrano infatti le vicende di una giovane donna (Nanà) che dopo essersi lasciata con il proprio compagno, trova lavoro come commessa in un negozio di dischi. Lei porta però con sé il sogno di lavorare nel mondo del cinema come attrice e per concretizzare questo desiderio, si fa scattare delle foto per un book di presentazione che smuove però poche cose in quella direzione.
Ma il problema più assillante, rimane quello del denaro perchè la donna non trova nessuno disponibile a farle un prestito anche minimo senza chiedere in cambio compensi di natura sessuale.
Purtroppo la realtà finisce per infrangere il cerchio dei suoi sogni e tutto finisce per andare a rotoli: non potendo pagare l’affitto, viene messa alla porta dalla sua affittacamere e si trova senza un tetto, obbligata a passare le giornate spostandosi da un bar all’altro senza una meta precisa. Vivere così è però per lei umiliante e piano piano, per sopravvivere, decide di vendere il suo corpo ed è costretta suo malgrado, ad entrare nel giro della prostituzione parigina.
Accetta di posare nuda per un fotografo, ma poi, scendendo i gradini del degrado, finisce in una camera d’albergo a ore con un uomo senza nemmeno sapere quanto deve farsi pagare per la sua prestazione sessuale.
Tramite l’amica Ivette, prostituta già navigata, conosce Raoul che le si propone come protettore e che la istruisce minuziosamente su come ci si deve comportare con i clienti.Nanà diventa così proprietà esclusiva del magnaccia.
Fra i molti clienti, incontrerà anche un giovane che le piace, ma Raoul non ammette altro rapporto sessuale che quello di lavoro e la costringe a rimanere strettamente legata al suo guinzaglio e alle sue regole.
Il magnaccia alla fine decide di venderla ad un nuovo protettore. ma al momento del passaggio di proprietà fra i due uomini, sorge una disputa sul prezzo di cessione. (ATTENZIONE: SPOILER) A questo punto c’è uno scambio di colpi d'arma da fuoco e tutto finisce in tragedia: Nanà colpita da entrambe i proiettili sparati dai due uomini., crolla sul selciato ormai priva di vita mentre gli uomini si allontanano sulle loro auto privi di ogni sentimento per quella vita stroncata considerata davvero meno di un oggetto.
Le due scene cult (io le definirei le più importanti e necessarie).
La prima (la più celebre e conosciuta) è quella in cui Nanà entra in cinema in cui si sta proiettando sullo schermo “La passione di Giovanna d’Arco” di Dreyer (eccellente e tutt’altro che banale citazione).
Nella sequenza si alternano e si intrecciano fra loro (magnifica intuizione) i primi piani (commossi e commoventi) della Karina con quelli altrettanto tragici della Falconetti e di un luciferino Antonin Artaud (che annuncia a Giovanna la condanna e – conseguentemente – la sua imminente morte).
“I sottotitoli del film antico – chiosa intelligentemente Farassino – sembrano sussumere le immagini del nuovo. E’ qui dunque che la parola scritta entra in rapporto con l’immagine e questo grazie alla mediazione, ancora, del cinema tradizionale, anche se poi gli esiti della problematica che si viene a creare, sono innovatori e innovativi”.
La seconda è in prossimità dell’ultimo quadro (quello conclusivo) che, come ho già detto, è il più esposto , volutamente posticcio e sproporzionato, quasi sopra le righe, che non tutta la critica ha accettato trovandolo un po' troppo stridente rispetto al tono generale della pellicola che è invece priva di enfasi drammatiche prima che si arrivi alla tragedia conclusiva. Mi riferisco in particolare al segmento tutto incentrato sulla lettura di un racconto di Edgar Allan Poe (l "Ritratto ovale"[3] la cui trama ha molto a che fare con questo film) che un giovane fa a Nanà. Una sequenza che privilegia la parola letteraria che prende il sopravvento su tutto il resto e che – singolarmente - per sottolineare ancora meglio il senso che le ha voluto dare il regista, inizia e finisce senza sonoro ma con sottotitoli che riportano il testo delle parole insonorizzate (racconto che poi comunque sarà riproposto nella sua interezza, letto però dalla voce di Godard.)
Note a margine
Possiamo dire allora che il film è anche e soprattutto una scottanteriflessione (critica?) sulla natura della rappresentazione cinematografica e dei suoi evidenti limiti perchè di fatto la vera protagonista del film non è Nanà (o la stratosferica bravura di Anna Karina che la interpreta) né tantomeno il fenomeno della prostituzione nella Parigi dei primissimi anni Sessanta, ma è il linguaggio che Godard ha utilizzato non solo come veicolo funzionale per la riproduzione traslata in immagini dei risvolti segreti del pensiero, ma anche e soprattutto come modalità di ricerca e sperimentazione.. Da sottolineare infatti che non c’è forma di linguaggio cinematografico che non faccia la sua comparsa anche in questo film (quasi che il regista stiesse cercando di rispondere così ad alcuni quesiti cruciali (che pone a se stesso prima che allo spettatore): qual è il modo giusto per rappresentare la vita? Come si fa a riformulare cinematograficamente la realtà senza tradirla?
Lui sa bene che ogni scelta è comunque a rischio di errore e menzogna, e come tale, può essere anche oggetto di contestazione non solo verbale (lo sa talmente bene che ne fa uno degli elementi portanti della pellicola (la scena in cui il filosofo Brice Parain[4] ricorda a Nanà - e conseguentemente allo spettatore - che nel linguaggio menzogna ed errore sono quasi inscindibili e indiscernibili.
Evidentemente a Godard preme moltissimo trovare le parole cinematografiche “giuste”, quelle che riescono ad esprimere esattamente ciò che devono (e vogliono) significare, per far così emergere dall’ambiguità della finzione cinematografica, piccoli sprazzi di realtà tutt’altro che virtuale (e anche e soprattutto la responsabilità etica e anche morale di essere coerenti con se stessi).
“Bisogna lasciar vivere la gente, non guardarla per lungo tempo, se no si finisce per non comprenderci niente.” (J.L. Godard)
Al di là di tutte queste considerazioni che hanno una valenza anche politicae sociale (si parla di contenuti) il film è importante e straordinario anche per come è stato girato poiché il regista utilizza da par suo una serie impressionante di soluzioni espressive che confermano la sua eccellente preparazione anche tecnica: soggettive, inquadrature fisse e oggettivanti (per esempio i primi piani di Nanà su sfondo neutro di muri o di finestre), rapide panoramiche orizzontali, carrellate laterali e semicircolari, lunghissimi piani-sequenza giustapposti, camera car “perlustrativi”, jump-cut a raffica e riprese documentaristiche.
Godard è insomma un autentico uomo di cinema (io lo definirei un artista a tutto tondo) che sa sempre anche prima di iniziare le riprese, qual’è l’obbiettivo che intende conseguire e come deve fare per raggiungerlo (e questo film ne è l’ennesima conferma). Ed è anche per questo che Vivre sa vie è così affascinante: lo è per quel miscuglio di costruzione reale e mascherata, di sincerità, di arditezza lessicale, di sofferenza vera e fasulla al tempo stesso su cui l’autore specula abilmente (e lo fa così bene, da non farci capire dove finisce il gioco e dove incomincia il dramm)a.
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Nanà (come la cortigiana del romanzo zoliano pubblicato nel 1880, è uno dei personaggi più belli e intensi di tutta la cinematografia Godardiana. “Della sua morte stupida e sbrigativa – osserva ancora Farassino - si può anche piangere, come lei fa vedendo al cinema la morte di Giovanna d’Arco (la puttana che si identifica con la santa”.
Il regista non giudica, constata. Impassibile, didascalico quasi che lo spettatore fosse messo di fronte a un documentario e il risultato - vero e astratto al tempo stesso – straniante, affascinante e completamente corrispondente alle intenzioni del regista, si conferma ancora oggi come un capolavoro senza se e senza ma, davvero uno dei vertici assoluti della cinematografia di tutti i tempi.
Il film nel definire il nuovo rapporto che qui si crea fra parole e immagine, coglie la realtà nelle sue componenti anche contraddittorie con un linguaggio funzionale alla visione del mondo che propone (prendere la vita com’è, accostarne le componenti, studiarne le combinazioni possibili) fino a farle diventare le tematiche centrali della pellicola
[1] “(…) è con Vivre sa vie che nel mio cinema il piano-sequenza acquista una maggiore funzionalità nei confronti della struttura globale del film che l’aiuta a liberarsi dalle sue origini ormai standardizzate, per farlo diventare un procedimento di resa dell’immediato e del casuale. Realizzando le inquadrature in questo modo, Il film è già di per sé fatto di una serie di blocchi che non hanno alcun bisogno del montaggio. Basta metterli un dopo l’alto senza dover ricorrere al missaggio. Figurativamente direi che basta prendere le pietre e metterle una accanto all’altra e il gioco è fatto. Tutto sta nel prendere al primo colpo la pietra giusta.. Insomma l’Ideale per me sarebbe quello di ottenere subito quel che serve, senza ritocchi.” (Godard)
[2] Con una dichiarazione dello stesso anno Godard renderà ancora più chiari questi concetti: “Filmare deve far parte della vita. Ai Cahier ci consideravamo tutti come futuri registi. Frequentare i cine-club e le cineteche significava già pensare in termini di cinema e pensare al cinema. Scrivere significava già fare del cinema: tra lo scrivere e il girare infatti c’è solo una differenza quantitativa e non qualitativa. Il solo vero critico di quel periodo è stato André Bazin. Gli altri, Sadoul, Balàsz o Pasinetti, sono storici o sociologhi non critici. Come critico, a torto o a ragione non lo so, mi consideravo già un cineasta in azione. Oggi mi considero ancora un critico, e in un certo senso lo sono più di prima. Che differenza c’è? Invece di scrivere una critica, faccio un film salvo introdurci poi la dimensione critica. Più propriamente, mi considero un saggista (anche quando faccio cinema) perché il mio è sempre un cinema in forma di romanzo o, (per dirla ancora meglio), di un romanzo strutturato in forma di saggio, solo che lo filmo invece di scriverlo.
Se il cinema dovesse sparire non mi perderei d’animo: passerei alla televisione (che per me sarebbe forse anche più congeniale) e se anche la televisione dovesse sparire, tornerei alla carta e alla matita. (…) La sincerità della Nouvelle Vague è stata quella di parlare bene di ciò che conosceva piuttosto che parlare malamente di ciò che non conosceva (e anche di mischiare tutto ciò che conosceva evitando di inventare cose senza basi reali di confronto). Parlare di operai? Mi piacerebbe ma non li conosco abbastanza e allora, per il momento mi astengo (e questa mi sembra onestà intellettuale. (…) Io non so fare film semplici e logici come Rossellini, umili e cinici come Bresson, austeri e comici come Jerry Lewis, lucidi e calmi come Hawks, rigorosi e sinceri come Truffaut, duri e lamentosi come i due Jacqes, coraggiosi e sinceri come Resnais, pessimisti e americani come Fuller, romanzeschi e italiani come Bertolucci, polacchi e disperati come Skolimowski, comunisti e folli come Dovzenko. Che fare allora se non realizzare film socialmente utili come quello che sto girando adesso? Ci si vergognerebbe ancora di un’arte cinematografica pienamente realista se la voglia malsana di metamorfosare il mondo non ci tormentasse? Perché ormai la creazione artistica non sta più nel dipingere la propria anima nelle cose, ma nel dipingere l’anima delle cose e questo è un guaio. Il problema comunque non è solo mio ovviamente, ma di tutti i cineasti militanti.
[3] Racconto fra i più brevi di Edgar Allan Poe, Il Ritratto Ovale, suggerisce che sia la bellezza della donna ad averla condannata a morte (ma anche che l’arte può essere rivelatrice delle colpe e dei mali dell’artista e che l’artista che si nutre di essa, sia al tempo stesso anche capace di distruggere quella vita che ha volutamente trasformato in arte.
[4] “Supponiamo che per qualche ragione io voglia mettere in un film un professore di storia della filosofia della Sorbona. Non ci sarebbe certo nulla che mi impedisca di farlo parlare dell’insegnamento di Kant. Ma ciò sarebbe, da un punto di vista critico, una cosa assurda e ridicola. Perché? Perché lo spettatore non va al cinema per sentire discussioni.”
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