Regia di Joon-ho Bong vedi scheda film
Un’ottima idea sviluppata male.
Ogni treno è un mondo, lo sanno tutti e sceneggiatori e registi per primi. Qui viene scelta la risoluzione estrema: il treno contiene tutta la popolazione rimasta, su una Terra irreversibilmente ghiacciata. Coerentemente con l’ordinamento celeste inferno-paradiso, in coda stanno i reietti, in testa i privilegiati. La comunicazione tra vagoni è in un senso solo, inutile dire a favore di chi. Quindi “risalire” il treno verso la motrice è compito vietato, perciò pericoloso ed eroico, considerato che i reietti sono banditi anche dalle disponibilità tecnologiche delle classi dominanti.
Gli ingredienti ci sono tutti per fare un film buono, anche ottimo. La scelta di limitare lo spazio rende cruciale ogni metro e quindi compatta l’azione (cfr. quanto dissi a proposito di Upside Down), permettendo anche di classificare le aree di influenza/azione delle classi sociali in maniera netta e inequivocabile.
La sceneggiatura parte in modo appropriato dalle ultime carrozze, orientando la trama come scoperta delle leggi che regolano l’universo sociale. È ovvio che prima o poi qualcuno si ribellerà a un livello di oppressione ai limiti della sopportabilità: è quel che ci aspettiamo accada, e accade. C’è quindi la “presa di potere” del protagonista (Chris Evans/Curtis), fondata sia sul bisogno di sapere che sulla non accettazione delle discriminazioni. Come sempre, egli deve combattere contro pregiudizi e inerzia dei suoi compagni di sventura.
Ma, dal momento della prima impresa (oltrepassare il confine che separa i reietti dal vagone successivo), il film diventa del tutto convenzionale e lo spazio limitato, anziché agire quale punto di forza come accaduto sino a quel momento, si rivela scenograficamente un vincolo troppo forte per uno sviluppo plausibile degli eventi: a rimanere intrappolata tra i vagoni è la regia (Bong Joon-Ho). Le singole realtà con le quali i ribelli interagiscono nella loro “ascesa al paradiso” rimangono ai margini, vengono proposte affrettatamente e senza il minimo approfondimento: gli occupanti dei vagoni di testa sono resi come semplici e grottesche macchiette, senza nessuna velleità di credibilità. Da un’idea di serie A si scade a un B-movie senza pretese, del tipo “mira e spara”, buono solo per qualche adolescente che abbia marinato la scuola.
La caduta non si arresta sul locomotore, ove uno spiritato Ed Harris/Wilford, che nella sua veste di deus ex machina avrebbe l’arduo compito di rendere plausibile il tutto, si disvela per un semplice maniaco ossessivo, privo del necessario spessore visionario.
Il finale è monco, e questo è un altro grosso peccato. Perché per una volta non c’è il lieto fine, ma nemmeno la minima suggestione di quel che potrebbe succedere. Per contrasto, mi viene in mente il finale “aperto” di The Mist (il racconto, non il film) di Stephen King, dove l’autore mostra indubbia abilità nel non concludere la vicenda, lasciando spazio a diversi scenari del Possibile. Qui no, manca una prospettiva anche solo suggerita.
Snowpiercer poteva essere un film tra il buono e l’ottimo (lo so, l’ho già detto), invece è solo una pellicola riuscita a metà. Il che, in queste faccende, significa non riuscita.
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