Regia di Joon-ho Bong vedi scheda film
C’era molta attesa per questo Snowpiercer , il nuovo film di Bong Joon-ho, blockbuster nato da cooproduzione e cast internazionali, perché il timore di una reverenza stilistica verso le logiche commerciali del mercato, soprattutto americano, avrebbe potuto comprometterne la riuscita. Il braccino del tennista aveva castrato in precedenza la potenza iconoclasta di Park Chan-wook (anche produttore di Snowpiercer) con Stoker, ridotto a mestierante Kim Jee-won per il ritorno di Arnold Schwarzenegger al cinema con The last stand, diluito il lucido talento di Andrew Lau nel pessimo Identità di un delitto . Film su commissione, quelli degli illustri colleghi di Bong, non è stato così per Snowpiercer, che invece è risultato essere un film pienamente riuscito e potente. Uno dei migliori film di fantascienza apocalittica degli ultimi anni.
Bong Joon- ho aveva infatti acquisito i diritti del fumetto francese Le Transperceneige di Jean-Marc Rochette e Jacques Lob, nel 2005, ancora prima di divenire famoso con i suoi memorabili Memories of murder (2003), The Host (2006) e il successivo Mother (2009), tutti inediti in Italia.
Il cinema del regista coreano, giunto con una manciata di film a insidiarsi stabilmente tra i maestri del cinema contemporaneo, è scandito da un perfezionismo ossessivo per i dettagli e la costruzione delle storie che ibridano i registri drammatico, commedia e action in un sofisticato equilibrio che se da una parte scarica tutta l’urgenza e il dinamismo del film di genere, come contrappeso conserva tuttavia sospensioni narrative e personaggi complessi, mai totemici, caratteristici di un cinema autoriale e introspettivo.
Non fa eccezione Snowpiercer, storia del treno il cui perenne movimento senza meta concentra fine e mezzo nello stesso istante ripetuto in eterno. La salvezza è la corsa che produce energia per il suo carico umano e del proprio carico umano necessita il treno per produrre energia per la corsa, in un ciclo biologico chiuso senza speranza di evoluzione.
Allegoria ribaltata dell’utopico moto perpetuo, impossibile in natura ma realizzabile nel modello economico che fagocita se stesso rigenerandosi e ancor di più nello scenario post apocalittico di una società distopica che cerca disperatamente di affrancarsi da quella distopia replicando il modello sociale capitalistico nella più semplice delle manifestazioni: un treno. La divisone in classi, lineare, comprensibile nella sua scarna e crudele separazione sociale, differisce dalla realtà pre-apocalittica dall’eliminazione di qualsiasi ambiguità. La seconda classe in coda, babele umana accatastata in un degradato slum antropofago. Prima classe, la testa del serpente di metallo dove scuole, pulizia, ordine e ricchezza accolgono i privilegiati.
Dopo 17 anni di corsa ininterrotta una rivolta capitanata da Curtis (Chris Evans) aiutato dal vecchio Gilliam (John Hurt) e il subdolo e tossico Namgoong Minsu (il fedelissimo Kang-ho Song) alla testa di un drappello di disperati, cerca di riportare giustizia sociale a bordo del treno ormai diventato l’unico mondo (im)possibile. Fuori l’inverno nucleare ha prodotto una nuova era glaciale, ma la speranza che l’era del disgelo possa far riemergere la vita dall’inferno di ghiaccio è più potente della paura e della disperazione di una realtà invivibile.
La grafica degli esterni è volutamente impressionista, quasi pittorica, più evocativa di un passato bloccato in eterno, gelido presente piuttosto che ricercare un realismo d’effetto. Il treno, di fatto, scorre sulla percezione della Terra che i passeggeri ricavano dai ricordi ormai sfumati, o dai racconti dei più anziani. L’interno del convoglio è invece dettagliatissimo, costruito nei minimi particolari per rappresentare chiaramente la condizione di vita dei suoi occupanti. L’estetica post atomica dei film di genere è chiaramente ripresa e compressa negli spazi angusti della tetra bara di metallo che rinchiude i superstiti.
Il grande pregio della fantascienza distopica di tipo regressivo è quello di mostrare le contraddizioni della contemporaneità traslando nel futuro le conseguenze delle scelte della società attuale. Una sorta di monito per il futuro che figura scenari apocalittici degenerativi fino a far degradare la realtà narrativa (secondaria) a livelli primordiali, collocabili anteriormente rispetto la realtà oggettiva (primaria). Un moto circolare che richiama ancora la metafora del treno ossessivamente in movimento su un candido diorama morente, il cui scorrere davanti ai finestrini blindati dell’Arca Sferragliante fa sembrare il paesaggio una bande dessinée che riverbera gli echi della grafic novel da cui il film è tratto.
Il grande pregio di un autore (è giusto chiamarlo così) come Bong Joon-ho è invece quello di non essersi fermato all’aspetto apocalittico della storia ma di aver montato un’ efficace metafora politica vestita da film di genere. Il film è innervato da un gusto per l’iperbole grottesca, un umorismo decadente e una satira sociale di grande impatto visivo e narrativo. L’impenetrabilità delle classi sociali che non permettono passaggi osmotici di individui restando, le caste superiori, ottusamene ostaggio dei propri privilegi, è ben mostrata dalla rivoluzione di Curtis e dall’abbattimento delle porte che dividono i compartimenti stagni del treno, facendo esondare il popolo sempre più nei luoghi ad essi normalmente inaccessibili. L’avventura del drappello degli inglorious basterds verso la conquista della Sacra Locomotiva reca in seno la metafora della tendenza al divino a cui aspira l’essere umano. Nel micro-mondo autarchico del treno, Dio è il macchinista. La sua ricerca, il rivolgersi ad esso guardando non più verso il cielo ma verso la testa del treno, è il tentativo di elevarsi dalla propria condizione terrena e aspirare all’Eterno. Nella distopia della società post apocalittica condannata in eterno a strisciare, è però riuscire a fermare l’Eterno la vera conquista.
Il percorso verso la salvezza avviene per step. Come nei videogiochi i vagoni conquistati sono livelli superati ai quali corrispondono acquisizioni di consapevolezza sempre maggiori, utili per affrontare il livello successivo e protetti da “boss” di fine livello. E’ in questi aspetti che viene fuori tutta la potenza visiva del cinema di Bong Joon-ho. Stilizzazione e ralenti, forma plastica del movimento, la gestione degli spazi e dell’energia sprigionata dal combattimento in un luogo chiuso, claustrofobico come può essere quello di un vagone ferroviario sono combinati in un’estetica fortemente rivolta alla spettacolarità del cinema d’azione.
Il sangue c’è, si vede e si sente l’olezzo della carne, del fuoco e del sudore. Ma le pause poetiche, sospese in un cristallo di neve penetrato nel treno o nella meraviglia del vagone-acquario, riempiono il cuore e danno sollievo alla pancia. L’ironia della grottesca rappresentazione della scuola per bambini fortunati improntata all’indottrinamento propagandistico più sfacciato, è invece un filamento del pensiero orwelliano filmato con un richiamo più che esplicito al Brazil di Terry Gilliam. E così via, da uno scompartimento all’altro va in scena l’ottusa replica della commedia umana del benessere, del vizio, dell’amorale cecità delle persone per bene. Le più vicine a Dio.
Snowpiercer è certo un film iperbolico ma fermo e rigoroso nel suo perseguire una coerenza ontologica sorretta da una ricerca estetica e narrativa di grande consapevolezza. Bong unisce il messaggio alto alla ruvidezza bassa del genere, fa del ribaltamento di ogni facile metafora un formidabile strumento narrativo che spariglia le certezze, costringe lo spettatore nello stretto cunicolo della pancia del treno ma ne allarga le percezione moltiplicandone gli aspetti emotivi grazie ad una regia di esemplare mobilità, capace di sfondare le ristrettezze fisiche (e mentali) delle paratie dei vagoni (e idealmente delle celle in cui è inquadrato il fumetto). Impone il suo sguardo sfrontato nel proporre personaggi al limite della caricatura (Tilda Swinton /Ministro Mason) ma assolutamente funzionali all’estremo, dissociante isolamento collettivo che costringe gli umani a regolare la stabilità dell’ecosistema con un disegno evolutivo che mischia il delirio di onnipotenza ad un darwinismo coatto grazie a una politica post-nazista.
Quella che Bong Joon-ho mette in scena è una favola fantascientifica dark, l’adrenalinico ultimo viaggio del genere umano lanciato a folle velocità verso un binario morto. E’ un grande film che si prende anche il rischio di un finale non conciliatorio, sospeso tra una flebile speranza e lo scoramento degli ultimi viaggiatori che hanno perso, nel gelo dell’anima, anche l’ultima coincidenza possibile per la salvezza.
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