Regia di Asghar Farhadi vedi scheda film
E' ancora un cinema di "separazioni" quello di Farhadi. Separazione fisica, mentale, spirituale, ideale fra personaggi inchiodati alle loro presunte colpe e corrosi dal loro inestricabile egoismo. Separazione che diventa quindi la cifra stilistica prediletta da Farhadi: i personaggi, in costante conflitto reciproco, raramente vengono posti nella stessa inquadratura; più spesso si ritrovano a discutere divisi dal montaggio, ma anche (scenograficamente) da barriere, siano esse vetrate, finestrini, staccionate, davanzali etc...Non solo acuto direttore di intepreti e fine psicologo di drammi domestici, quindi, ma anche raffinato "metteur en scene": se la prima qualità lo pone al passo coi contemporanei francesi (Kechiche, Cantet, Ozon e altri...accostabili a Farhadi non tanto per lo stile, ovviamente, quanto per l'approccio attento, al contempo partecipe ed analitico, ai moti di coscienza e agli scompensi emotivi dei personaggi), la seconda invece è eredità dei connazionali iraniani (la tendenza a costruire senso con pochi mezzi, come in Samira Makhmalbaf o Panahi, suggerendo metafore senza farle pesare, con estrema naturalezza: valga come esempio, la scena in cui Semir e Marie caricano lampadari sulla macchina e il movimento di questa produce un incessante tintinnio, come un "grillo parlante" venuto dal passato a bussare alla coscienza dei sue amanti). Che poi, in realtà, tale separazione non è poi così praticabile, poichè le vite dei vari personaggi restano legate fra di loro da dissidi irrisolti, come anelli intersecati: nemmeno nella sequenza della sentenza di divorzio (che dovrebbe segnare un punto di svolta, un distacco definitivo), si verifica visivamente tale separazione, poichè Farhadi decide di "inquinare" l'inquadratura con la presenza sfocata di un avvocato e con un cellulare che squilla ripetutamente. Per tutto il corso del film, fra i personaggi, non si generano rapporti di forza, ma di fragilità; non sono possibili alleanze (nemmeno fra Ahmad e l'adolescente Lucie), non ci sono valori e verità assolute, nessuno può permettersi di fare la morale all'altro, tutti hanno qualcosa per cui chiedere scusa. Come nel precedente "Una separazione", la ricostruzione della verità dei fatti resta una chimera, un processo frustrante di false piste e ragionamenti fallaci: il passato è una zona d'ombra della memoria, un rebus insolvibile, un labirinto di dubbi e sospetti. E' un cinema dell'instabilità, della precarietà, dell'incertezza, dell'incomprensione, della forma indefinita, del movimento continuo: Farhadi nega ogni tipo catarsi. Il film non ha la stessa armonia e lo stesso ritmo dell'illustre predecessore: alcuni momenti paiono un po' troppo forzati e nella seconda parte la regia perde un po' di smalto, ripiegando su inquadrature standard, da manuale del campo-controcampo. Inoltre, troppo poco resta detto sul passato di Ahmad, di cui si intuisce una possibile "doppia vita"; e il finale ospedaliero rasenta davvero il colpo basso, evitato da Farhadi solo grazie all'asciuttezza registica, ma indubbiamente debole sul piano espressivo e drammaturgico. Alcuni critici hanno parlato di Kieslowski, dei sui dilemmi etici, dei capricci del caso, dei destini intreccati, delle "porte scorrevoli": a mio parere, del compianto regista polacco rimane, più che altro, il senso di "fraternità" delle anime, ovviamente ribaltato nell'astio, nella diffidenza, nel rancore, e riformulato come impossibilità di liberarsi dalle responsabilità nei confronti degli altri. Forse nessuno come Farhadi aveva ancora saputo dare una accezione così negativa al concetto di "legame indissolubile".
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta