Regia di Zeki Demirkubuz vedi scheda film
La solitudine è uno specchio. È la superficie metallica sulla quale si riflette il disprezzo che gli altri provano per noi, che a volte è meritato, altre no, e spesso è solo il riverbero di quello che noi, per primi, nutriamo nei loro confronti. Muharrem è un essere isolato ed infelice. Vorrebbe fare, della sua diversità, un’arma con cui sfidare il mondo, per potervi trionfare in virtù della propria natura superiore. Ma, per iniziare una guerra, bisogna anzitutto essere capiti dal nemico. Invece Muharrem è da tutti considerato strambo, inarrivabile nelle sue manifestazioni estreme, che oscillano tra una primitività animalesca ed un vertiginoso intellettualismo. È l’individuo che aspira ad essere un universo onnicomprensivo, senza mai doversi adeguare all’ambiente. La sua compagna più fedele è una patata, carnosa concentrazione dell’energia che proviene dalla terra, e che rimane nascosta sotto il suo manto per potere dare i suoi frutti. La parola turca yeralti corrisponde all’inglese underground, ed è il luogo sommerso in cui sia consuma l’esistenza di un personaggio dostojevskiano, il protagonista del romanzo Memorie dal sottosuolo, a cui il film liberamente si ispira. Un uomo che di sé dice: Non solo cattivo, ma proprio nulla sono riuscito a diventare: né cattivo, né buono, né furfante, né eroe, né insetto. E ora vegeto nel mio cantuccio, punzecchiandomi con la maligna e perfettamente vana consolazione che l’uomo intelligente non può diventare seriamente qualcosa, ma diventa qualcosa solamente lo sciocco. Muharrem è un disadattato dal carattere dominante, che guarda all’umanità attraverso una lente deformante, che rende tutti piccoli e ridicoli. Le contraddizioni, per le quali gli altri si disperano, sono il paradiso in cui Muharrem sguazza con arrogante piacere, mentre le loro banalità sono l’inferno in cui egli, ogni volta, tristemente sprofonda. Il sogno ad occhi aperti è lo scenario ideale in cui egli trova il coraggio di sbattere in faccia al prossimo la sua squallida pochezza; però, al risveglio, su di lui torna immancabilmente ad incombere l’incubo di essere impotente, per il fatto che nessuno lo prende sul serio. Il cinema turco da tempo ha infranto la barriera dell’intimità domestica per penetrare nella silenziosa dimensione del pensiero individuale; tuttavia, il dramma che altrove è un fremito perso nella vastità della noia, qui si fa protesta urlata, beffa rumoreggiante, vaniloquio sfrontatamente privo di poesia. L’ululato è il suono che simbolicamente domina il racconto, come sintomo di una bestialità equiparabile ad una geniale forma di follia: quella che nega deliberatamente l’espressione verbale per comunicare il superamento di ogni senso, a fronte del quale ogni affanno risulta vano. È il principe di tutti gli insulti, che ribadisce l’altrui incapacità ad afferrare il significato di qualsivoglia messaggio, e ne sancisce, così, apertamente, la totale indegnità come interlocutore. Gli altri sono infinitamente lontani dalla verità, solo Muharrem vi è estremamente vicino: il suo sguardo è acuto, come quello dell’obiettivo che lo inquadra quasi sempre in primissimo piano, in una prospettiva che lo vede come punto centrale, come una sorgente di gravità in grado di curvare lo spazio. L’aria, intorno a lui, è stracolma di idee, che volano al di sopra di coloro che, invece, conoscono solo meschini appetiti, di gloria, di soldi, di sesso. Muharrem si dibatte furiosamente, con l’anima e con il corpo, affinché quei concetti volatili diventino oggetti pesanti e concreti. Invece le leggi del cosmo li respingono come impossibili, e a lui resta soltanto la vaga e sofferta impressione di essere – nonostante tutto – ancora vivo.
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