Regia di Tolga Örnek vedi scheda film
Ecco l’altro volto dell’action movie. Un modo di narrare pulsante di emozione, perfettamente calato nei registri televisivi occidentali e nei ritmi delle avventure poliziesche made in USA, eppure deciso a non prendere partito, continuando a spostarsi da una parte all’altra della barricata. Il terrorismo di matrice fondamentalista islamica è un fenomeno da guardare dal di dentro, standoci in mezzo, nella veste di chi lo pratica e di chi lo combatte, facendo sì che la lotta non assuma mai il tono propagandistico o didascalico del confronto tra il torto e la ragione, o quello epico della guerra dei forti contro i deboli. Su entrambi i fronti, è la necessità a premere: quella di affermare la propria identità culturale e la propria utopia religiosa, e quella di sconfiggere un potere occulto che semina la morte. In questo funesto torneo, martiri e vigliacchi si contendono il primato del male, quello plateale che si esibisce per fare paura, e quello invisibile che si coltiva nella stretta sfera privata, tra dubbi e morsi della coscienza. È il viavai di un conflitto che cambia continuamente direzione, come il percorso tortuoso di un’indagine, smarrendosi nel senso di impotenza, oppure deflagrando in sanguinose esplosioni di violenza. È così che il thriller diventa un giallo robusto e multiforme, che si arricchisce grazie al frequente cambio di prospettiva, mentre il meccanico lavoro di squadra si alterna alle parentesi private, nelle quali il singolo si defila per tramare dietro le quinte, per ritirarsi a riflettere, o per scoprire il risvolto drammaticamente umano di tutte le battaglie epocali. Il protagonista della storia, che in un film diverso potrebbe essere l’eroe appena adombrato da qualche concessione alla debolezza, è una figura opaca ed ambigua, incerta sia nel suo acume di investigatore, sia nella sua presunta freddezza di operatore della legge. I suoi contorni sfumano in mezzo alla nebbia delle ipotesi, delle tentazioni, degli errori, dentro cui si barcamena come un uomo qualunque, senza ostentare modestia né sbandierare retoricamente la sua mediocrità. L’ispettore Fikret Kozlu ci piace, ma non ci colpisce; è il ritratto di un soggetto che si fonde naturalmente con il paesaggio circostante, partecipando ai suoi chiaroscuri, alle sue sbavature, ai suoi accostamenti cromatici non sempre felici. È l’uomo che i suoi colleghi dicono incapace di amare, ma che forse è solo distratto, o magari segnato dalle delusioni. E non siamo sicuri della sua solidità sentimentale e morale, se per lui il dovere venga davvero prima di tutto, e l’amicizia possa passare in secondo piano. Il suo carattere si rivela nella pratica, giorno dopo giorno, secondo le circostanze, senza mai dare l’impressione di aderire ad un modello letterario prestabilito. È, in altri termini, il personaggio che si muove nel racconto per trasmettergli il proprio impulso vitale, così, come viene, senza cercare di realizzare, attraverso di esso, la descrizione della propria personalità. Questo è il realismo senza meta che meglio interpreta l’inquieto teatro dell’era contemporanea, in cui i punti di vista e le visioni ideali sono in numero troppo grande per poter essere organizzati in un sistema. Abitiamo in un universo senza struttura, dominato da un intreccio articolato e variabile, che possiamo esplorare solo abbandonandoci alla sua complessità da vertigine. Ogni ricerca si risolve in un vagabondaggio attraverso un Labirinto: il cammino può portare all’uscita, ma non è detto che, allora, alla fine del giro, i due capi del filo si trovino a combaciare.
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