Regia di Robert Aldrich vedi scheda film
Oltre a essere un gigante del genere bellico, The dirty dozen è uno di quei film in cui capisci come la caratterizzazione dei personaggi rende una trama abbastanza sfruttata (sia in passato che in futuro, rispetto al 1967) memorabile e ben distinguibile dagli altri prodotti di genere. L'unicità del film di Aldrich a livello schematico potrebbe stare nella concomitanza di due generi diversi, spesso molto ristretti all'interno delle loro dinamiche narrative/stilistiche e raramente in grado di coordinarsi in maniera simile, ovvero il genere bellico e il genere carcerario; e ancora più schematicamente si può ritrovare un'adesione al secondo nella prima parte, con le lunghissime sequenze dell'addestramento, e al primo nella seconda, con l'assedio di un castello tedesco in Francia poco prima dello sbarco in Normandia e dell'eventuale ricerca del soldato Ryan. In realtà non tanto nelle sequenze singole quanto nello sguardo, che osserva e racconta tutto nella maniera rigorosa e diretta come solo i registoni del passato sapevano fare, i due generi si rivelano assolutamente equivalenti nella narrazione di un gruppo di carcerati (ergastolani o condannati a morte) che sapranno riscattare la loro esistenza anche a costo della vita. Per osservarne l'ascesa (mai etica, ma prettamente umana) quanto la prevedibile caduta Aldrich non adotta mai lo sguardo commosso e del tutto partecipe, ma si adegua agli stilemi del genere (magistralmente gestiti da un montaggio frenetico e praticamente perfetto) mostrando un rispetto nei confronti di tutti i soggetti rappresentati (eventualmente appoggiati dallo spettatore alla luce di simpatie/antipatie varie) e lanciando critiche sarcastiche all'officina bellica americana, il "vero nemico" della sporca dozzina che avrebbe più motivo (personale) di uccidere gli ufficiali americani piuttosto che quelli tedeschi, nella chiusura totale del suo isolamento (ben reso dall'oscura fotografia delle prime sequenze), e non assumendo una particolare sensibilità storico-strategica e di conseguenza sviluppando ostilità nei confronti dei tedeschi, ma riscoprendo, dopo il loro forzato isolamento, un cameratismo che si rivelerà necessario nel lunghissimo scontro finale. Nell'unione fa la forza però si cela un notevole spaccato di caratteri umani che nel menefreghismo corretto e fisiologico nei confronti dell'ipocrisia del ceto militare (l'esercitazione, a metà film, è un pezzo di comicità e di allegria imprevedibile, nonché calderone di squisite stoccate sarcastiche) rivela la natura sporca e sudicia della guerra, nei confronti della quale niente fanno la perfezione dell'abito, l'igiene o il grado ufficiale: tutte mascherine per coprire la vera natura del secondo conflitto mondiale. E il film non si lascia scappare nemmeno una piccola grande frecciatina contro il bigottismo religioso, l'altra faccia della medaglia "guerra", che nel complesso dei tredici uomini (i dodici più il sergente di Richard Jaenkel che segue la compagnia) rivela un singolo traditore quasi su misura per incarnare un novello Giuda, portatore di un ideale pacificatore/giustizialista che fa più danni che la guerra stessa, minando alla base il positivo cameratismo. Mai certo il film si rivela guerrafondaio né simpatizzante per le attività belliche, e mantiene una coerenza tematico-stilistica invidiabile.
Nonostante le varie caratterizzazioni (comunque facili e di immediata comprensione) non c'è mai intimismo, nella regia di Aldrich, ma tensione verso lo spettacolo e la meraviglia, l'adrenalina e l'ironia, mai nell'eversivo tentativo tutto moderno di rovesciare un genere, ma nella volontà evidente e chiaramente raggiunta di creare un piccolo colosso che si riveli indimenticabile e che faccia scuola.
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