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Quella che avrei dovuto sposare

Regia di Douglas Sirk vedi scheda film

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La recensione su Quella che avrei dovuto sposare

di diego
8 stelle

Un sottile gioco psicologico è alla base di questo film di Douglas Sirk, un “melodramma famigliare” che diviene una (ulteriore) spietata critica (e analisi) della società borghese americana degli anni 50 i cui ruoli son rigidi e ben definiti, dai quali non si può uscire (e se ci si tenta, si è costretti a pagar caro –vedi Desiderio di donna e altri), la cui vita è ridotta ad una macchinosa, automatica “robotica” (come l’esplicito simbolismo dietro a “Rex l’automa che parla e cammina”) serie di azioni. Clif, marito e padre di famiglia, al ritorno di un suo vecchio amore giovanile si accorge lentamente della piattezza della sua vita divisa tra casa e lavoro, assecondato da moglie e figli che danno per scontata la sua presenza, il suo ruolo pretendendo solamente che lui lo continui a recitare, assolutamente indisposti a qualsiasi iniziativa, sordi e ciechi davanti alla sua reale persona, alla sua vita, sia emotiva che non. In questa situazione di routine, Clif vede nella sua vecchia fiamma l’unica via d’uscita dalla monotonia, identificando in lei la sua giovinezza, le sue passate avventure e quindi un possibile (semplicistico) ritorno ad una vita più spensierata ed intensa, un ritorno “al fiume” (come invece era chiamato il bisogno di scrollarsi di dosso “la maschea”, il ruolo oramai definito in Come le foglie al vento). Lei riparte, cosciente del fatto che la loro relazione sarebbe di nuovo tendete al fallimento e lui, nell’imposto happy end, torna fiducioso dalla moglie e dai figli, che nel frattempo, hanno imparato a dedicarsi al padre. Se pur una soluzione “felice”, Sirk non rinuncia al pessimismo che ne caratterizza tutta la sua opera e che non riesce a nascondere nemmeno nei più rosa dei suoi film, difatti Clif vede per sempre perduta la speranza di recuperare la sua gioventù, duro sarà il percorso che lo porterà a godersi maggiormente la sua famiglia e certo è che probabilmente, questo tentativo, finirà col fallire, nuovamente.
Uno degli aspetti più importanti del film (caratteristica del regista) è l’uso degli specchi, i protagonisti non sono altro che riflessi, “imitazioni” (La Stanwyck contro gli innumerevoli vetri e i vari specchi, quando si trucca…la moglie subito dopo la “liberazione” sul balcone di Clif, che torna senza esserne stata minimamente toccata alle sue “menate”…) a ribadire il loro ruolo di, appunto ruoli, imprigionati dentro le case (spesso riprese da fuori, le scene dalle finestre), dietro sbarre come in carcere (quelle che separano l’anticamera dal salotto, quelle della scala…).
Certamente non uno dei suoi miglior lavori (se pur attentissimo e curatissimo, sia esteticamente -se pur meno di altri suoi film, magari a colori, sia narrativamente -l'analisi socio/psicologica è sopraffina), sicuramente un buon film, come la maggior parte delle sue pellicole più deboli, che non hanno la potenza dei suoi altri immensi, eccezionali melò.

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