Regia di Matthew Porterfield vedi scheda film
“Ero sempre scuro in viso, poi divenni più solare, solo per adombrarmi ancora. Qualcosa di troppo grande da esser colto per intero stava passando e ripassando su di me.”
Due accenti, due città [Ocean City (con la sua piccola "Wonder Wheel"), come prologo, e Baltimora (che, dal PdV cinematografico, dopo John Waters e David Simon, scopre un terzo cantore), come set principale], un oceano di mezzo [con, all'altro capo del filo (telefono) e del ponte satellitare (Skype), l'Irlanda del Nord], un test di gravidanza, un divorzio e un mezzo trasloco in corso, e più o meno 8 - tra pubbliche e private, palchi e studi di registrazione casalinghi, grandi esibizioni e piccole prove - performance live (ma non è un film sulla musica, quanto piuttosto sulla vita). Insomma: il mondo gira.
Matthew Porterfield, autore di “Hamilton” ('06), “Putty Hill” ('10) e “Sollers Point” ('17), scrive, con Amy Belk (che sarà poi anche autrice del soggetto di “Sollers Point”), e dirige questo "I Used To Be Darker", una ballata minimalista (“A Love Song for Bobby Long”, “Once”, “Flight f the Conchords”, “Inside Llewyn Davis”) – fotografata da Jeremy Saulnier (sodale da sempre di Porterfield di cui ha illuminato tutte le opere per poi diventare autore in proprio con “Murder Party”, “Blue Ruin”, “Green Room” e “Hold the Dark”, oltre a spartirsi con Nic Pizzolatto le regie di “True Detective 3”, laggiù in Arkansas nel 1980, con lo zampino di David Milch...), montata da Marc Vives (che ha editato tutti i film del regista tranne l'esordio, di cui Porterfeld ha curato personalmente il taglia e cuci) e scenografata (magnificamente) da Bart Mangrum –, nello specifico in seno alla classe media (con tracce di piccola borghesia), che riesce, con invidiabile senso del racconto e di rappresentazione della natura umana, ad estrapolare e sedimentare dalle interazioni tra i personaggi...
{tranne le due giovani ragazze [Deragh Campbell (Taryn) - poi in “Stinking Heaven”, “O, Brazen Age”, “Never Eat Alone”, “the Intestine”, “Fail to Appear” e “Grim Trigger” -, e Hannah Gross (Abby), la futura - dopo un sacco di cortometraggi - Deborah “Debbie” Mitford di “MindHunter”] - qui comunque alla loro prova d'esordio in un lungometraggio - protagoniste [più una terza, Adèle Exarchopoulos (Camille), già professionista (“la Vie d'Adèle - Chapitres 1 & 2”), relegata in una fugace apparizione nel prologo], il resto del cast [a parte Declan Sammon (Sam, il fratello di Taryn), che compare solo via notebook], ovvero i genitori di Abby [Bill (Ned Oldham, fratello di Will aka Bonnie "Prince" Billy) e Kim (Kim Taylor)] e i due componenti la band di Kim [Nick (Nicholas Petr) e Geoff (Geoff Grace)], è formato da musicisti (anche in parti brevissime, spesso in performance live e interpretando “sé stessi”: Jack Carneal, Jimi Zhivago, etc...) qui alla loro prima e quasi unica partecipazione cinematografica davanti alla MdP, con risultati sorprendentemente positivi se non eccezionali}
...un senso a/de-lla vita. A tratti, anche se gira s'un accordo abusato, la sintassi armonica, letteraria e cinematografica risulta essere meravigliosa. Un film dallo sguardo adulto, spoglio d'ogni artefatta artificialità, a suo modo prezioso.
Kim Taylor in "Days Like This" e Ned Oldham in "One That Got Away" :
“I used to be darker, then I got lighter, then I got dark again / Something too big to be seen was passing over and over me.”
“Jim Cain” (utilizzata in “Blue Jay” da Alex Lehmann) di Bill Callahan in “Sometimes I Wish We Were An Eagle” del 2009.
Traduzione mia, non letterale, ma effettuata (con variante) tentando di rispettare la metrica: “Ero sempre scuro in viso, poi divenni più solare, solo per adombrarmi ancora [Ero sempre scuro in volto, ma divenni più solare, e poi m'adombrai di nuovo]. Qualcosa di troppo grande da esser colto per intero stava passando e ripassando su di me [Qualcosa di troppo grande da esser colto per intero passava e ripassava sopra di me]”.
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