Regia di Bennett Miller vedi scheda film
Alla lettera, Foxcatcher vuol dire “acchiappatore di volpi”. Le volpi, storicamente, si acchiappano con la caccia alla volpe, l’hobby elitario par excellence. E si fa, quasi sempre, coi cavalli, che l’anziana signora Du Pont alleva e tratta alla stregua di persone. I cavalli: quindi l’ippica, l’equitazione, la regalità del cavallo che si lascia addomesticare dall’uomo, per certi versi l’apoteosi della dialettica tra servo e padrone. L’eleganza, insomma, nello sport, diciamo, che nulla ha a che fare con la volgarità che la signora Du Pont addita al wrestling, chiodo fisso del figlio John. Davvero ti fai chiamare Aquila?, sottintende sconfortata e sdegnosa, in un dialogo laconico che preannuncia una tragedia inevitabile, a quel figlio così solo e complicato, a cui, nell’infanzia pagava a sua insaputa un ragazzino affinché gli fosse amichetto. La chiave della storia, forse, si trova qui, in questo conciso incontro nel quale emergono l’assoluta inadeguatezza del figlio squilibrato e l’angosciante paura della madre anafettiva (che è Vanessa Redgrave in un cammeone notevole).
Il sottotitolo italiano è apparentemente banale: Una storia americana. A ben vedere, al di là della mancanza di fantasia, è probabilmente azzeccatissimo: la sua americanità è tanto formale quanto contenutistica. È la storia di un’ossessione che nasce, cresce ed esplode, messa in scena con una progressione che rinuncia ad essere pedissequamente esplicativa come cinema biografico noiosamente impone, sceglie l’approccio di granelli di sale grosso gettati a poco a poco su una ferita che peggiora gradualmente fino a far malissimo verso la fine. Film glaciale che non si lascia suggestionare né dal fascino del male (“il cattivo” è vanaglorioso e schizzato) né dall’onestà del bene (“il buono” è un plagiato), ma con uno sguardo rivolto al polo della coscienza che si sacrifica sull’altare delle ossessioni ingestibili e delle passioni represse (impersonato da un eccellente Mark Ruffalo), si limita alle poche parole indispensabili per tracciare il ritratto di un’America complessa ed eterogenea (un ricchissimo maniaco e due poveracci che si son fatti da soli) però unita nell’assillo della vittoria pur con differenti obiettivi (da una parte il capriccio per dimostrare di essere un vincente agli occhi della madre e dall’altra il riscatto tipico del film sportivo americano).
Dio misericordioso del cinema biografico preservaci Bennett Miller, tra i pochissimi ad oggi a saper costruire un biopic contemporaneo senza cedere al didascalismo e alla ruffianeria, capace di rappresentare il contesto collettivo e comunque specifico in cui agiscono i personaggi peculiari e al contempo paradigmatici. Il suo è uno stile secco e finanche saggiamente stilizzato, rigoroso fino ad essere inospitale. Accanto al sorprendente Channing Tatum, puro istinto e bestialità del puro, con almeno un momento da ricordare quando distrugge la camera d’albergo muovendosi come se fosse su un ring (il lavoro sulla postura), un fantastico Steve Carrell pare nato per essere «l’ornitologo, filatelico e filantropo (con questo ordine)» Du Pont: la sua recitazione accenna ad un espressionismo d’altri tempi nell’immota espressività a cui l’obbliga il pesante ed efficace make up e vive del suo sguardo torvo ed infantile, tormentato e spietato che s’accorda alla psicologia inquieta ed inquietante.
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