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Foxcatcher - Una storia americana

Regia di Bennett Miller vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Foxcatcher - Una storia americana

di amandagriss
8 stelle

 

Il sogno americano.

Che rende grande e illustre l’America.

Orgogliosi chi vi è nato, e nel corso dei secoli, per generazioni, ha seminato bene affinché mantenesse e moltiplicasse il suo rigoglio, contribuendo a tener alto il valore della propria Terra. Madre Patria benevola che infonde nei suoi figli sentimenti nobili in grado di permetterle di avanzare nella crescita, per arrivare a conquistare l’eccellenza.

In ogni campo.

Ad ogni latitudine.

Insinuandosi nello stratificato e difforme tessuto sociale.

Divulgando come dogmi di fede i principi su cui si fonda un Paese che si è fatto da solo, costantemente in prima linea nel privilegiare lo spirito d’iniziativa e quell’atteggiamento positivo, costruttivo, motivato, “convinto” (di riuscire negli obiettivi prefissati) che l'ha sempre contraddistinto.

Oltre le avversità, le grandi depressioni che periodicamente investono e devastano la storia, anche di imponenti Nazioni come gli Stati Uniti d’America. Dotati di quel tramortente ruggito ancora più agguerrito allo scoprirsi sguarniti dell’aura abbagliante di cui si fanno abitualmente scudo, emanata dallo splendore dei propri, tanti, innumerevoli eroi: soldati, scienziati, letterati, artisti. E sportivi.

Persone comuni che un prodigioso talento eleva dalla massa, che il popolo americano (e non solo) può glorificare, a cui può guardare e in cui trovare una guida. Da cui prendere esempio. E seguirne le orme, per toccare, un giorno magari, i medesimi traguardi con uguale soddisfazione.

Ma ogni sistema, per quanto ben organizzato avanzato e sofisticato, presenta delle falle, delle insanabili fratture che rendono fragile e precaria la sua ossatura sana e robusta, procurandole, non di rado, traumi permanenti per la forza devastante con cui si abbattono su di essa.

Sono le contorte distorsioni del sistema capitalistico, e in questo racconto, straordinariamente immersivo fin dalle prime battute    

[il regista parla di sport o meglio di storie vere che girano intorno allo sport riuscendo nell’ardua impresa di non annoiare, soprattutto chi di sport, tipicamente yankee e non, poco o nulla ne sa, anzi, mantiene alta l’attenzione rendendo amabili i suoi personaggi e sa come coinvolgere lo sguardo ammantando la storia, qui come in Moneyball - L’arte di vincere, della giusta atmosfera capace di far presa sullo spettatore],

trovano magnifica incarnazione in un curioso quanto inquietante (un sorprendente Steve Carell) signore di una ricca famiglia yankee con alle spalle un importante passato nell’equitazione e nella caccia alla volpe ma prima ancora negli armamenti. Un filantropo con i suoi vezzi ed i suoi vizi che, mosso dalla Gloria Patria e da sani e giusti valori di cui è fatta, finanzia e si fa promotore di iniziative (in svariati settori) volte a rafforzare il Paese delle grandi opportunità.

Siamo negli anni’80, in piena era reaganiana, ed essere dei vincenti significa portarsi a casa il sogno americano, riscattarsi dalla, spesso umile, condizione di appartenenza, rendere gloriosi se stessi, il fautore ‘materiale’ della propria gloria e, di riflesso, un’intera Nazione.

 

 

Stavolta la causa ‘patriottica’ bacia un promettente atleta (un piùccheperfetto Channing Tatum) medaglia d’oro alle Olimpiadi insieme al fratello maggiore (un mimetico Mark Ruffalo) che gli ha fatto da padre, in un’esistenza priva di affetti e di riferimenti, e da istruttore nella dura e faticosa disciplina in cui entrambi eccellono, la lotta libera.

Eppure il successo sul podio non corrisponde ad un tenore di vita agiato e i due ragazzotti continuano le loro esistenze ai bordi di una qualsiasi grigia periferia, incentrate sulla famiglia (del più grande) e sugli sfiancanti allenamenti quotidiani, in vista dei prossimi campionati mondiali. Una quotidianeità, soprattutto per il fratello più piccolo, fatta di sandwich consumati nella solitudine della propria auto o della casetta piccola e spoglia, con divani e materassi di pessima fattura come il resto dello squallido arredamento. Ma la routine, parca sincera e rigorosa, verrà scossa dalla allettante proposta da parte di questo benestante signor mecenate (amante della lotta libera, dal suo blasone liquidata come una pratica sportiva minore e poco elegante) di impegnarsi a preparare al meglio il giovane bestione, affinché conquisti il gradino più altro del podio e arricchisca meritatamente la mirabile storia americana.

Purtroppo non saranno tutte rose e fiori. Al massimo crisantemi.

La gloria promessa si volgerà in tragedia.

Perché ben presto il potere (e chi l’esercita) svelerà la sua natura oscura. Folle, subdola e perversa. Insieme ad un universo di difettosi affetti materni, frustrazioni e rimpianti, di profondi desideri inappagati, di invidia latente, d'irrefrenabile avida voglia di autoaffermazione costantemente e pesantemente castrata.

“Far volare un’aquila privata delle ali”, sogno troppo a lungo tenuto a stagnare, e perciò putrefatto, non può che generare mostri. A spezzare legami fraterni lunghi quanto una vita, solidi quanto i mastodontici corpi dei lottatori e quelle avvinghianti prese previste nel combattimento.

E creare il caos. E sporcare del proprio marciume, contaminare con la propria mediocrità infiocchettata e sapientemente venduta chi si è scelto per il suo talento, accogliendolo rassicurandolo e proteggendolo, per poi smarrirlo e condurlo alla perdizione che non conosce ritorno e ritrovo.

Mandare in frantumi una carriera.

Uccidere i sogni un tempo incoraggiati.

Estirpare una vita. Anzi due.

E non curarsi di lasciar sanguinare ferite che mai guariranno.

 

 

Perché il potere logora anche e prima di tutto chi ce l’ha.

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