Regia di Bennett Miller vedi scheda film
Dopo Truman Capote (un manifesto d’intenti) e L’arte di vincere, Miller torna al reale che si fa letterario, adattando l’autobiografico Foxcatcher di?Mark Schulz e David Thomas. 1987. Un campione olimpico di lotta (Tatum), cresciuto sotto l’egida del fratello maggiore (Ruffalo), è chiamato dal miliardario John E. du Pont (Carrell), a far parte della sua neonata società sportiva. Ovvero un sogno a fondo perduto, una visione privata, malata d’Edipo e fuori misura, che nasce con hybris per rifondare nello sport i valori perduti d’America. Su questo squilibrio tra storia personale e destino di un paese, tra capitale e Mito, tra retorica e pratica, Miller costruisce un film che lavora sul classico ma è in cerca continua di scarti e scompensi, di tratti alienanti, di spettri: tra immagini del passato che ritornano, make up caricaturali e doc che non documentano, le inquadrature non si limitano a raccontare solo gesti ed eventi, ma si soffermano a lungo sul rapporto fisico tra gli uomini, sfumano il pathos, ammutoliscono l’epica e fanno dei luoghi teatri astratti e deformi, ring della mente. Sono i corpi muti a parlare, a dire delle tensioni psichiche, sessuali, economiche: la lotta non è uno sport, qui. È una tragedia implosa, silente. E non è solo un biopic, un ritratto umano, Foxcatcher. Ma storia d’America, parabola sull’imperialismo economico e culturale, mitologia che s’infrange e non smette d’infrangersi.
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