Regia di Bennett Miller vedi scheda film
Un’altra solita storia americana? Americana sì, solita un po’ meno. Foxcatcher definisce sornione la strada verso il patriottismo, irta di ostacoli e di follie. L’individualismo sportivo americano che trova le sue radici profonde in quel giustificazionismo che spinge uomini di grandi ricchezze ad accumulare tanto quanto possono permettersi, per ottenere la vittoria, per vincere, e trasformare i propri vuoti nei pieni dei trofei accumulati. Con freddezza e con tempi sincopati il film di Bennett Miller (premio per la miglior regia a Cannes, meritatissimo, come sarebbe stato meritato l’Oscar 2015 per la miglior regia) indaga una provincia americana che vuole farsi centro assoluto del nuovo motore per un paese a pezzi, un paese che può sperare nel successo sportivo per “riprendersi” (o almeno queste sono le parole di John Du Pont, interpretato da uno Steve Carrell impressionante, visto come il trucco invadente non abbia ostacolato comunque una recitazione impeccabile). Per rinverdire insomma lo scaffale dei premi e delle medaglie, il ricco ereditiere John Du Pont, appassionato di ornitologia e, in quanto praticante di birdwatching, convinto di vedere la realtà con altri occhi, chiama a sé il vincitore dell’oro per la lotta libera, Mark Schultz, un Channing Tatum che lascia intravedere qualche sparuta emozione sotto il broncio indeformabile che è ormai il suo tratto distintivo (riconoscibile in Jupiter di recente così come in G.I. Joe qualche anno fa), per allenarlo, pagargli uno stipendio annuale strabiliante e fargli vincere il campionato mondiale, e non solo uno, tutti quanti egli sia in grado di disputare, insieme ai vari giochi olimpionici – tant’è che, non appena un campionato finisce, per Du Pont inizia immediatamente il conto alla rovescia per il successivo.
In un film in cui è l’agognata vittoria il tema portante è interessantissimo e coraggiosissimo vedere invece un grossissimo ed evidente stato di smarrimento, di confusione mista a rassegnazione. Il rigore della regia di Miller (che merita un capitolo a parte in seguito) ricalca severamente lo stato d’animo dei protagonisti, individui che combattono con insanabili traumi psicologici (per Schultz un’infanzia negata, per Du Pont un rapporto edipico ambiguo con la madre Vanessa Redgrave), e che non riescono a catturare nemmeno nelle vittorie quegli attimi di catarsi che concederebbero loro un sospiro, un attimo di felicità e di soddisfazione, negato dalla corsa e dalla costante frustrazione. È forse il personaggio del fratello, Dave Schultz, quel Mark Ruffalo anche lui candidato all’Oscar, l’eccezione (che fa la regola) del caso, un uomo che costruisce passo dopo passo la sua esistenza non imperniandola solo sul gioco, ma costruendoci su una famiglia e degli affetti sinceri, all’insegna del buon senso sempre e comunque. Benché si stenti a crederlo fratello di Tatum, il suo personaggio è pregno di dubbi come gli altri, forse solo meno affascinante e più conciliante (e per questo strapazzato notevolmente in fase di stesura dello script). Il risultato è un trio caratteriale sottile e per nulla grossolano, che colpisce e che avvince, nonostante la natura sostanzialmente contemplativa di molte sequenze, che si soffermano sui volti e sui paesaggi.
La regia di Miller è una splendida “regia invisibile”, di quelle che non si vedono perché perfettamente in linea con il sentimento (più che con l’evento) narrato, e dunque adatte sempre e comunque alle situazioni. Forse in tal senso troppo poco straniante, ma efficace e capace di giocare fra tradizionalismo e sperimentalismo alternando vicinissimi primi piani a grandangoli mozzafiato, immagini oscure e quasi sfocate ad immagini chiarissime e nitide. Un passo sopra, certo, il lavoro puramente professionale; uno sforzo, quello di Miller, di farci viaggiare con il feeling giusto attraverso i luoghi maledetti del desiderio e della sconfitta esistenziale (al prezzo di immanenti vittorie). Certo è che Miller è aiutato dagli attori, tutti e tre in parte, chi più bravo chi meno bravo, ma sempre coerenti e in grado di non strafare. Solo l’accompagnamento musicale può risultare di troppo, di tanto in tanto, fra una sequenza e l’altra, considerando che Miller dimostra una maturità visiva non insignificante che prescinderebbe qualsiasi sottolineatura della colonna sonora, ma la prova estetica rimane comunque ammirevole, soprattutto se si pensa che si tratta di un film americano passato per i palati di quelli dell’Accademy. Con presenti, tra i migliori film degli Oscar 2015, The Imitation Game e The Theory of Everything, stupisce che Foxcatcher non sia rientrato in questa classifica (o forse spiega più di una cosa sui gusti della giuria). Forse troppo problematico e più evidentemente ambiguo dell’altrettanto difficile ed incompreso American Sniper?
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta