Regia di Bennett Miller vedi scheda film
Film al limite della perfezione. Tolgo subito le due note (poco) dolenti che mi impediscono di accendere tutte e cinque le “stelline” nella mia modesta valutazione:
1) la mancanza pressoché totale di un’impronta femminile vera (nel ruolo assegnatole, la divina Vanessa Redgrave non può nulla, suo malgrado, per evitare la cosa), un film testosteronizzato al massimo che rimanda un po’ al gusto di un’ottima bistecca al sangue, servita però senza insalata;
2) qualche leggerezza nel montaggio, specie nella prima parte del film, dove alcune situazioni avrebbero forse richiesto una maggiore cura nel levigare il passaggio tra l’una e l’altra.
E tenuto conto che, probabilmente, il punto 1) di cui sopra è una scelta deliberata di Bennet Miller (quanti ottimi film non potrebbero essere che “testosteronici”?), ritengo che il premio alla regia che Cannes gli ha tributato faccia il paio con quello negatogli ai recenti Oscar e, vista l’incetta di statuette pesanti del “Birdman” (per il quale sinceramente e senza rimpianti tifavo), idealmente trasferisco d’ufficio dalle mani di Inarritu a quelle del nostro regista americano l’Oscar per la miglior regia.
Un trio perfetto: il buono, il brutto, e il cattivo (che però è anche brutto, grazie ad un make-up sorprendente che non è bastato ad assegnare, anche qui, nessun Oscar...). David (Mark Ruffalo, felicemente liberato dal suo sexy simbolismo) è il buono, che sa andare anche oltre il semplice essere buono, rappresentando al contempo il buon fratello maggiore, il marito e padre ideale, l’atleta serio e responsabile, incorruttibile, che racchiude in sé tutti i valori universalmente positivi fino al sacrificio estremo. Mark, il campione, suo fratello (un Channing Tatum a mio avviso formidabile, stilizzato come un fumetto di Ranxerox), è il brutto, ma è soprattutto il debole, l’insicuro, il gigante che non sa della sua forza e che, costretto a delegarla ad altri, non trova quella capacità di discernimento necessaria per capitalizzare se stesso, infliggendosi inconsapevolmente una sofferenza ed una frustrazione via l’altra. John (Steve Carrol, naso alla Bob Rock su un ghigno oltremodo inquietante) è il cattivo. Ma anche qui, la caratterizzazione del personaggio (la caratterizzazione dei tre è il vero punto di forza di tutto il film) sa andare “oltre”, e la cattiveria di questo buffo ometto goffamente super ricco che si crede e pretende di essere ufficialmente un allenatore di lotta libera non è solo semplice cattiveria, ma è superbia, ambizione, arroganza, indifferenza, corruzione, degrado, prepotenza, complessi irrisolti, incoscienza di sé e di quanto tutti queste cose unite insieme rendano al tempo stesso gli uomini tanto potenti quanto falsi e ridicoli.
Bennet Miller miscela tutti questi ingredienti con un’abilità straordinaria: i rapporti familiari: madre/figlio (un’intera e prestigiosa scuderia di cavalli maestosi mandata in rovina solo per via di una stupida quanto annunciata morte); due fratelli e le loro scelte così diverse, pubbliche e private (una scena magistrale ad inizio film, con i due che si allenano iniziando con lo somigliare a due cuccioli di orso che giocano tra loro e finendo poi per ferirsi); l’ambito di uno sport minore (la lotta libera, che trova in americano lo stesso termine “wrestilng” usato per una ben più popolare e meno nobile disciplina), osservato sempre con una interiorità lontana, valorizzato molto più nell’ambito delle sudate palestre piuttosto che sotto i riflettori delle competizioni (la scena topica e culminante della gara alle Olimpiadi di Seul, alla quale un banale Clint Eastwood avrebbe concesso almeno un quarto di noiosissima finto-scintillante ora, qui viene risolta in pochissimi, basilari fotogrammi) attraverso il quale il regista sa cogliere tutti gli aspetti corrotti di un’americanità malata (il film si chiude paradossalmente con un coro di tifosi che gridano al vento “U-S-A! U-S-A!”) che non sa difendere i suoi figli migliori, inserendo il tutto in una scenografia da sogno (quando serve sognare, e da incubo quando il sogno finisce) che vien da chiedersi perché siano i film insipidi dei presunti “grandi” alla Clint Eastwood a far parlare di loro il mondo, e non siano i modesti Bennet Miller coloro che degnamente rappresentino nel mondo la coscienza della filmografia impegnata americana.
Non per niente, ad un film del genere, l’America, dopo averlo ipocritamente invitato alla sua festa, non ha saputo tributare nemmeno un piccolo premio Oscar, in perfetto stile John Du Pont.
Imperdibile.
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