Regia di Luis Buñuel vedi scheda film
All’origine dell’ultimo film di Luis Bunuel c’è un racconto abbastanza inflazionato e conosciuto che aveva già ispirato altri autori. Naturalmente non si può liquidare un film del genere come una semplice trasposizione filmica di un oggetto letterario. Perché, innanzitutto, tale non è. A prima vista può apparire come un asteroide misterioso capitato per caso (fatalisti in crisi) in un universo solitamente annoiato. È un film sul terrorismo che impera nelle nostre vite? Sulla follia generata dal naufragio esistenziale? Sulla religiosità e sulle sue mille sfumature? Sulla terribilità dell’ossessione? Di tutto un po’. Ma ho come l’impressione di non aver centrato bene l’obiettivo.
Tra le tante cose, Quell’oscuro oggetto del desiderio è un film così sottilmente insinuante da catturarti l’attenzione in modo spudorato. Non ti lascia un attimo di tregua, ti soggioga al suo volere. Che poi è un volere allucinante. Non tanto per il contenuto in sé per se, quanto proprio per la messinscena, di raffinata persuasione. Quanta gente ancora si scervella su quella geniale e al contempo ingiustificabile scelta di distribuire la parte femminile in due corpi? Due corpi, un’anima. Cos’avrebbero in comune la bellissima ed algida Carole Bouquet e la tozza e caliente Angela Molina? Fossero le due anime di un mondo (quello femminile) al quale non si può dar figura definita perché mutevole e vario? Sarà, chissà. Ma, diamine, come va preso questo oscuro oggetto, così lineare e nitido nella forma da risultare arduo ed enigmatico nei contenuti?
Una buona strada sulla quale battere è la tesi psicanalitica. Il protagonista, lo smarrito Mathieu, si ritrova al principio del film in uno scompartimento di un treno in cui, in un modo o nell’altro, tutti i passeggeri si sono già conosciuti di vista (quant’è piccolo il mondo). La rottura del ghiaccio è dunque procurata da una certa “discreta confidenza morbosa” che si instaura tra i personaggi, tra cui un nano psicologo. Mathieu (Fernando Rey: meraviglioso alter ego) è la trasfigurazione corporea dello smarrimento dell’uomo al cospetto dell’immagine insinuante femminile, è il burattino senza fili che viene impugnato dalla donna con energica virulenza. La finta misoginia è l’arma a doppio taglio sfoderata dal perfido Bunuel, che struttura un film basato fondamentalmente su un inseguimento.
Metafora dell’uomo che insegue la donna fino in capo al mondo, è il topo che finisce nella trappola, o la mosca atterrita nel bicchiere. I due corpi si cercano, si sfuggono, si temono. “Sono un’altra donna!” urla ad un certo punto per manifestare il suo cambiamento (e s’era anche capito, dato il cambiamento di attrice: è come se la Molina gridasse l’espiazione dal suo corpo della Bouquet: d’altronde è anche, nel sottotesto recitativo, un duello femminile alquanto affascinante e suggestivo). “Così io non sarei normale?”, si chiede un’altra volta. E la risposta di Mathieu è tutta un programma: “Beh… insomma!”. È uno scambio di battute che ben s’addice ad un’opera così genialmente artefatta e oscura, a metà tra l’esercizio psicologico e il raccontino morale, che è tutto e niente allo stesso tempo, privo di una sua identità definita. È ovvio: essendo un film sull’inseguimento, il film a sua volta insegue sé stesso.
Ma, soprattutto, è un’opera sull’ossessione: l’ossessione per la donna uccide psicologicamente l’uomo, lo porta in balia di un naufragio esistenziale, lo turba, lo mette in crisi profondissima. E il misterioso finale forse vuole dire, nella sua ambiguità e nella sua indefinitezza, che non c’è altra soluzione che saltare in aria. O forse che saltare in aria o meno non conta più, vivere o morire è uguale, così come aleggiare nel dubbio di una vita che continua o di una morte che esplode. Chissà, chi mai saprà. E la donna si appiglia al suo burattino, il cui comportamento è sempre più indecifrabile (nonostante la psicanalisi sia con i compagni di viaggio che, indirettamente, col pubblico perso nei suoi meandri mentali). Alla fine accade quel che aleggia in tutto il film: l’oggetto del titolo diventa (o è sempre stato tale?) diventa soggetto, si impadronisce della scena, di chi la abita (l’uomo). Ecco allora qual è il tema del film: l’inganno. Sin dal titolo. Geniale Don Luis.
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