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Quel treno per Yuma

Regia di Delmer Daves vedi scheda film

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La recensione su Quel treno per Yuma

di scapigliato
8 stelle

Western classico e minimalista per eccellenza alla “Mezzogiorno di Fuoco” di cui riprende anche il motivo del treno. La storia infatti è semplice, e semplicimente mitica (nell’accezione corretta del termine). Abbiamo un criminale diabolico quanto affascinante e seduttivo, Glen Ford; un agricoltore molto primitivo, pratico e col viso imperfetto di Van Heflin; un viaggio da fare tra insidie varie; un treno che deve partire, quindi una scadenza da rispettare; un assedio da cui difendersi; e tanto dramma psicologico. Delmer Daves, autorevole nome del panorama western classico, con le sue avvisaglie moderne, firma il capolavoro di una vita e di una intera Storia cinematografica. Come iniziavo, “Quel Treno per Yuma” è classico perché separa nettamente il buon Van Heflin dal cattivo Glen Ford, nonostante sia indubbio il fatto che approfondendo i due personaggi non si riesca ad intravedere una chiara sovrapposizione dei tipi. É classico perché quando Van Heflin parte, la famigliola lo guarda allontanarsi, stringendosi retoricamente verso l’orizzonte. É classico perché è in bianco e nero (e non vuol dire poco, anche contenutisticamente). É classico perché è duro e lascia ben poco a bizzarrie e contaminazioni. Ed è anche minimalista perché preserva un’unità di tempo, azione e luogo, radicale in Zinnemman e spuria qui in Daves, che permette al film di essere un film di caratteri più che di azione. Il confronto-scontro tra i due personaggi è archetipale nella misura in cui lo Shane di Alan Ladd e il killer di Jack Palance sono soltanto la concrezione di una polarità interiore che la morale vuole ben dividere manicheamente, mentre invece in “Quel Treno Per Yuma” il bandito Ben Wade e l’agricoltore Dan Evans si confronteranno solo su un piano psicologico, e non prettamente fisico. Non sono le esemplificazioni di due opposizioni, tant’è che non c’è il duello finale che secondo me è appunto la “risoluzione di due opposizioni di termini esistenziali”. É quindi una novità, benche maturata letterariamente già con Elmore Leonard, nel panorama manicheo della cultura americana. Per esigenze di studios il regista dovette lasciar stare certi commenti personali che credo avesse avuto durante la lavorazione, per evitare tagli e problemi vari. Ma si percepisce subito che tra i due scorre una rivalità moderna e non solo atavica. L’opposizione agricoltore-bandito, ovvero sedentario e nomade, ovvero civile e selvaggio, è solo accennata. É uno scontro sterile che infatti non trova una vera realizzazione visiva e narrativa. Piuttosto è una rivalità moderna, anche sessuale, a scorrere tra i due interpreti, entrambi di gran razza e qui ai loro personali capolavori attoriali. Van Heflin/Dan Evans capisce che il bandito ha un ascendente verso la moglie, e in generale verso chiunque è predisposto a riflettere e non ad agire soltanto col fucile. Si sente quindi in difetto, e questo, oltre ai 200 dollari, specchietto per le allodole, sarà il motivo che lo convincerà a portare il bandito a Contention in tempo per il treno delle 3:10 per Yuma. Dal canto suo, Glen Ford/Ben Wade, circuitore di gran classe, si propone come elegante variazione del diavolo tentatore. Non sono nemmeno in pochi quelli che leggono il film in chiave religiosa, dove Van Heflin caccia il diavolo dalla terra della brava gente, coltivatori dediti alla casa e alla famiglia. Niente di più retorico. Eppure questa non può essere una chiave di lettura attendibile. In Glen Ford c’è di più che un diavolo, come in Van Heflin c’è di più di un angelo custode. Entrambi, ripeto, non sono termini di un’opposizione, ma la sfumatura di un’umanità moderna che sta lasciando zappe ed aratri come sta lasciando rapine e assassinii, per dedicarsi alla valorizzazione dell’umanesimo. Uomo salva Uomo. In definitiva sono una sovrapossizione di termini oppositivi, miticamente oppositivi, ma modernamente conviventi. E solo così si spiega il bellissimo finale su “quel treno per Yuma” che porta i due protagonisti verso la comprensione che il conflitto è interno all’uomo, e che solo l’uomo, dal suo interno, può risolverlo. Non serve sempre e solo il contraltare retorico, incarnazione vile di pratiche da vecchio testamento, bensì l’inquietudine moderna, che dal dubbio genera la riflessione, dalla riflessione la comprensione, e da questa la compartecipazione e la condivisione.
Un western che se non appartiene ai tre titoli storici e archetipici del genere, sa ugualmente essere una novità, di stile e contenuti. Nell’epifania dell’umanesimo si risolve il primitivo scontro conservatore e animalesco tra buono e cattivo, scardinando i codici di entrambe la tipizzazioni. C’è anche quella impercettibile omofania che non può far urlare ad un’intesa omoerotica, ma almeno ad uno scontro sessuale disegnato coi segni della virilità western: il cannamozza di Van Heflin contro il “disarmo” di Glen Ford, oppure la seduzione erotica dello stesso Glen Ford contro la rassegnazione casalinga di Van Heflin. Entrambi segni di una modernità che parla a sé stessa, senza che i segni si neghino tra l’oro.

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