Regia di Sebastián Lelio vedi scheda film
“Gloria” (id., 2013) è il quarto lungometraggio del regista argentino Sebastian Lelio. Dopo “La Sagrada Familia” (2005) gira “Navidad” (2009), “L’Anno della Tigre” (2011, presentato al Festival di Locarno) e, quindi, “Gloria” (2013, presentato al Festival di Berlino dove ha conquistato il premio per la miglior attrice, Paulina Garcia).
Una donna in vita, una donna che si esalta, una donna che si mostra, una donna che si piace, una donna voluttuosa, una dona ironica, una donna triste, una donna scemante, una donna sola, una donna ariosa, una donna nuda, una donna che ama, una donna flebile, una donna disarmante e un donna che colpisce. Scientemente coriacea e fintamente trastullante, morente di vita e sanguigna in panne.
Divorziata e con due figli adulti Gloria vive liberamente in se e con gli altri senza paragonarsi e senza nemmeno rimpiangersi ma è piena di quello che gli accade e vuole prendere la ‘boria’ degli anni migliori (fossero anche le adolescenze mente i cinquanta macchiano solo l’esteriorità degli altri). Non bada a restringersi e a tutto tondo il personaggio femminile si snoda nelle giornate con freni impossibile e lascivi sguardi di senso verso il mondo che lo circonda. In casa, in auto, in ufficio, in discoteca, in salotto, in godimento, in lacrima, in risate, in abbracci, in salute, in scorrere del tempo, Gloria presenta i suoi visi molteplici come un arlecchino, gioiosamente abboccante alle mense dei tempi e agli sguardi delle persone. I suoi occhiali filtrano la bellezza dello sguardo altrui e trasudano la fierezza della meschinità insopportabile. Si dona senza parafrasi di gioco succoso, ricama le sue gambe da vecchiume superfluo e apre la veste a chi gli offre un po’ di strano momento di appagamento. Gloria disperata e assennata, mitrale e carnosa. La vita cilena vista con pudore antico e sguardo femmineo più antesignano che mai. Come un fuoco vivo che ridesta l’animo e non reprime il sogno (antico) di un giorno migliore, come sorgere del Sole per un Cile in ombra che vuole togliere(si) il cielo rabbuiato per non tradire passione e desiderio (sociale e fisico). Il corpo inebria lo sguardo di un paese in rivolta e in protesta, con strade e piazze chiassose come spirale contro un potere opprimente, mentre la carne dismessa di una donna in cerca di serena (com)partecipazione discorsiva, s’aggrappa ad ogni ostacolo e supera le rive incantate di una spiaggia addormentata. Come lei si sveglia e senza paura e tergiversare, scalza e indurita dagli eventi si reca dov’era, si slava dalla sbornia, chiede un aiuto all’amica con un viaggio in autobus che ridesta memorie di marciapiedi calpestati. Ma è solo l’istante della vita che dà agli uomini il potere di un letto davanti a occhi dileguanti e contorti di respiro ammiccante. E’ la ‘gloria’ che aspetti che in ogni momento si mostra diversa e uguale, mai doma e sempre con accenni e sincopati modi di spauracchi (ri)scomparsi. Gloria si allena per un ballo liberatorio: sola e da sola allarga le anche, alza le braccia, smuove la cerchia e allarga ogni piazza in festa. Il Cile che langue si rimescola nel destino e rialza la testa (come un cuore di donna) davanti al silenzio di tutti e alla solitudine da scacciare (e al nemico interiore da sputare in un corteo vitale di bandiere sventolanti) come chimera annullata nell’animo rinato di una mamma che piange (per i propri figli) e il suo popolo.
“Gloria” è un film pieno di tutto dove l’attrice Paulina Garcia non ha ripresa: si dimena e scorre nei tempi dei giorni come appare e non traspare: arriva a noi senza accadimenti finti con movenze mai domate e ricamate ma così in sano realismo (non conclamato) e in un tutto tondo senza viziosi modi della cinepresa che in disparte (e senza parti da conferire) riannoda i momenti e le corse fiere di una donna sempre di fronte a noi che ma mai dice di noi, parla di lei, si incammina nello sguardo odierno di una storia in cambiamento. “Ho paura di rischiare”, dice, ma il suo rischio è vivere ogni ora e qualsiasi momento da dove cattura il meglio (forse) e il meno che non vuole (di causa): è nella mischia, si lascia trasportare dalle onde libere, dal vento delle polveri, dalle storie, dallo specchio e dalle lenti con malinconia ridente.
Il film di Sebastiàn Lelio è puramente minimalista nelle intenzioni ma racchiude un sapore di sorpresa e di sventatezza ironica che lascia con poco fiato; con tranquillo trascorrere il racconto s’apre in noi e divaghiamo nei suoi istinti neuroni(ci) come nei sorrisi di bocca di rossetto. E sì che ognuno rimette il gusto del fiocco da porre in un tributo armonioso di una donna in anni di aspetto ma carica di speranze di una ragazza. E “Gloria” si riappropria di un destino mancato quando rompe con gli schemi e la vita gli dice contro: divorzio diventa sinonimo di confini riaperti e di una lingua sconosciuta. Rischia tutto per aprirsi al mondo (come il suo Cile). Arrivare a separarsi per ritrovare tutto e (forse) se stessi. E la canzone di Umberto Tozzi nel finale libero, con movimenti, ora istantanei. ora smossi, ora giovanili ora tirati: un ‘gloria’ gli eventi che attorcigliano gli animi degli invitati e dello spirito perso (e forse liberato) di una donna in un Cile disperso dagli eventi e disperat(o)amente laconico nella Storia odierna e nella storia delle persone di un essere che canta quando la festa comincia e non riesce più a felicitarsi quando la figlia parte da lei senza nemmeno essere disperata in se stessa. Gloria nella canzone riammette gusto al senso filmico di una donna ‘spaventata’ e ‘intrisa’ di molte cose. Un occhiale e un rossetto rendono gloria a una donna bellissima.
Il regista rischia in più frangenti demarcando la sottile finezza tra goliardata avveduta e minimo-sentimento schiumato: un fuori onda che non si aggiunge e un taglio di scene appena in schermo. Qui, solo qui la mano esperta di un film (capolavoro) poteva trovare qualche corporeità aggiuntiva (con musiche di sottofondo almeno assenti perché il reale è da ‘sentire’) e memorie di succulenti riviste (teatranti). L’interpretazione (o meglio la presenza scenica) di Paulina Garcia è encomiabile: tutto senza parvenza di recitazione finta: espressioni decantate con scioltezza e senza mimiche rituali. Un personaggio dal ‘vero’ che il vero ci offre (fintamente avveduto al corpo in mostra); mai uguale a se stessa in tutti i minuti del film. Premiata con L’Orso d’Argento al Festival di Berlino.
Da ricordare il personaggio di Rodolfo (Sergio Hernàndez) che tira diritto verso la sua donna ma non arriva al terzo tentativo quando la sua ‘amata’ si vendica in modo fulminante e divertente (per lei). Mai portare la propria donna al Parco giochi con finte armi! In ogni caso tutti gli attori di contorno restano impressi e sono ben caratterizzati: Pedro (Diego Fontecilla), Ana (Fabiola Zamora), Hugo (Hugo Moraga). Il regista dispone la macchina da presa al servizio delle strade che percorre ‘Gloria’ e antepone il suo modo di fare a quello di modificarlo a piacimento. Un merito non da poco per esaltare la prova di Paulina Garcia.
Voto: 8-.
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