Regia di Sidney Lumet vedi scheda film
Il 22 agosto 1972 John Wojtowicz e il suo complice Salvatore Naturile tentano (invano) di rapinare una banca a Brooklyn. Le complicazioni sorte portano i dipendenti dell’istituto a essere tenuti in ostaggio per ore dai due sprovveduti e improvvisati malviventi. Il grande (e spesso sottovalutato) Sidney Lumet ne ricava un film di assoluto valore.
Sviluppato sull’eccellente sceneggiatura di Frank Pierson premiata con l’Oscar, “Quel pomeriggio di un giorno da cani” (“Dog Day Afternoon”) spicca nella vasta filmografia di Lumet come una delle sue opere meglio riuscite, più ispirate, artistiche, dal tono d’autore.
Ciò consente a questa pellicola (poco citata, richiamata, riconosciuta, un po’ come il suo regista) di accomodarsi a buon diritto tra i grandi titoli della storia del cinema.
Per più di una ragione: la già citata scrittura, capace di regalare situazioni e dialoghi realisti e al tempo stesso capaci di diventare di culto, in grado di ritrarre e delineare in maniera intima e intimista i tratti dei protagonisti che condividono complessi profili psicologici; lo stile autoriale, quasi giornalistico, della regia con una resa frenetica della vicenda alla pari con la frenesia espressa e repressa dell’improbabile coppia di scalmanati, confusi e inadeguati rapinatori; e poi l’interpretazione di Al Pacino. . .un condensato di abilità innate e apprese, di tecnica e istinto, di adesione e improvvisazione, immerso, ispirato (e spiritato!) come non mai.
Il suo personaggio Sonny Wortzik, complesso e contraddittorio, è un vero paradosso: è lì, con un’arma in mano, a minacciare altri ma ha timore prima di tutto di sé stesso (oltre che della moglie); sposato appunto ma al tempo stesso intrattiene una relazione omosessuale con Leon, suo “sposo” a suo dire; il movente che lo spinge in un’impresa tanto al di sopra delle sue capacità rivela gran parte della natura instabile, incapace, vulnerabile, volubile e disperata di quest’uomo a cui non è sfuggita di mano una rapina ma la sua vita.
Tale pot-pourri di personaggio affiancato da un altrettanto e improbabile collega più che complice, in quanto di complicità vi è solo una stravagante e massiccia dose di ignoranza che non può che suscitare persino tenerezza tanto negli ostaggi quanto negli spettatori del film; John Cazale interpreta Salvatore Naturile, dalla personalità più soggetta alla perdita di controllo e incline a dar sfogo alla violenza, più per la consapevolezza che non ha ormai nulla da perdere e da chiedere alla propria esistenza che per desiderio di dar sfogo ai propri impulsi, tant’è che fra i due sembra quello più propenso a fare vittime.
Bravissimo John Cazale che nell’arco della sua brevissima carriera all’interno della sua, purtroppo, brevissima vita per via di una morte sopraggiunta troppo presto, ha regalato interpretazioni sempre degne di nota, intense e piene di forte caratterizzazione, una vera maschera del cinema (in 7 anni di carriera di attore, ha recitato in 5 film divenuti, senza esclusione alcuna, 5 indiscutibili cult).
Due scene per ricordare le performance dei due protagonisti:
- Al Pacino, al di fuori della banca, mentre media con la polizia, tutto d’un tratto inizia ad urlare “Attica!” venendo inneggiato dalla folla di persone accorse ad assistere; il personaggio di Pacino era un reduce del Vietnam molto toccato dal clima sociale dell’epoca e il suo urlo fa riferimento ad una rivolta scoppiata all’interno del penitenziario di Attica, nello stato di New York, a seguito dell’uccisione dell’attivista politico George Jackson membro del movimento delle “Pantere Nere”, di certo un’epoca polveriera per i delicati equilibri personali e sociali della popolazione americana, una polveriera capace di detonare folle e personaggi allo sbaraglio quali il nostro (anti)eroe Sonny Wortzik. La scena (riuscitissima) non era prevista dal copione, ma fu completamente frutto dell’improvvisazione di Al Pacino che lasciò sorpresa la troupe, poi altrettanto compiaciuta in fase di montaggio.
- John Cazale offre una mitica risposta ad Al Pacino alla domanda più o meno posta in questi termini: “La polizia ci offre la possibilità di recarci all’estero una volta liberati gli ostaggi, tu dove vorresti andare?” Risposta: “Nel Wyoming!”. Una risposta che vale l’intero prezzo del biglietto al cinema, che rivela tutta l’inadeguatezza, l’ignoranza ma al contempo la genuinità ed un’inaspettato e spiazzante senso di innocenza del personaggio.
In definitiva si è di fronte ad un grande film dall’enorme valore culturale e sociale; è una vivida fotografia della società americana post ‘68, un film i cui personaggi isolati, ignorati, estraniati dalla società riflettono un disagio esistenziale frutto di intolleranze e discriminazioni, un disagio figlio di una politica che ti costringe ad andare in guerra prima e (se sopravvivi) ti riporta a casa poi, ma per abbandonarti, lasciarti solo al tuo destino, con i tuoi traumi, tutti i tuoi strascichi. Un errore imperdonabile il primo, un’infamia il secondo. Una politica che all’interno dei suoi confini non riesce a eradicare un’altra infamia, quella del razzismo e della emarginazione sociale cui una fetta della popolazione è costretta vittima dalla propria condizione economica.
Erano gli anni ‘70, oggi, nel 2025, la storia non è poi così diversa.
Un appunto sul titolo scelto per la distribuzione su suolo nostrano: l’espressione statunitense “Dog Day” del titolo “Dog Day Afternoon” si riferisce al periodo più caldo dell’anno, i giorni della canicola o del solleone (di fatti gli eventi si sono svolti nel mese di agosto), chiamati canicola in quanto in questo periodo dell’anno è visibile la costellazione del Cane Maggiore. Anche se in definitiva può anche piacere, sorprende l’approssimazione con cui vengono tradotti spesso i titoli in italiano; una traduzione più accurata sarebbe stata “Sotto il segno del Cane Maggiore” oppure “Quel pomeriggio di caldo infernale (o canicola)”.
Resterà per sempre “Quel pomeriggio di un giorno da cani”, di cani però nemmeno l’ombra, ma due uomini che per un lungo pomeriggio (14 ore in tutto) hanno avuto il loro momento di “gloria” che in qualche modo li ha consegnati alla storia. . .in fin dei conti, non hanno torto un capello a nessuno.
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