Regia di Sérgio Tréfaut vedi scheda film
“Marido, aqui, Portugal”…
E se i ‘non-luoghi’, queste tanto citate sorgenti della spersonalizzazione – o meglio, della trasmutazione del soggetto in varco assunto verso l’informe –, alla fine non lo fossero. ‘Non-luoghi’, intendo. E se al posto di questa loro presunta simbologia di una modernità asettica, livellante, ponessero in essere invece un labirinto di procedure, un apologo arcaico di dominio e di assunzione di autorità.
È un po’ quello che ci si chiede dopo aver visto scorrere questi settanta minuti scarsi del primo lungometraggio del regista portoghese Tréfaut; una voluta riflessione, in un bianco e nero atonale e per una fredda concatenazione di inquadrature e di fotogrammi neutri, che porta ad osservare con teatrale attenzione (tutto è compresso in scene mai mosse, spesso con contrasti di tono a scandire passaggi drammatici e scansioni della trama, con battute ripetute da più punti di vista), una normalissima storia di incomprensione umana.
Può un aeroporto diventare un carcere, e può divenire un ospedale, può trasformare dei passeggeri in passaporti e rimodellare, reincarnare la comunicazione in una forma sopraffina di commiserazione?
Cosa commiserare? In questo film i personaggi parlano l’inglese, il francese, il portoghese ovviamente, il russo, il linguaggio degli sguardi e dei gesti, ma non c’è un solo momento in cui pare ci si voglia comprendere. C’è una memoria semantica, non del linguaggio – che quello codificato è oramai – ma dell’includere, che viene continuamente azzerata. Un documento viene malinteso, un biglietto di ritorno ignorato, una piccola somma di denaro incriminata, una iniezione di insulina negata, una professione demistificata, una madre umiliata; un semplice passaggio di frontiera diviene l’agone in cui combattono i mostri fantastici delle nostre più recondite paure. La frontiera non è più la glottide dell’intenzione e dell’intesa, ma una membrana vischiosa e circolare con cui un sistema cerca di escludere (o di espellere) ciò che ‘segnala’ una diversità ontologica. La sensibilità del limite, diventa l’esoscheletro di una rarefazione di attenzione umana. Come può diventare un film, il resoconto di un simile paradosso? E, soprattutto, lo può diventare davvero?
“Sim, marido, Lisboa”…
Sérgio Tréfaut vi riesce e non vi riesce. Controlla con buona mano i personaggi cardine della storia (la passeggera intrappolata, l’ispettrice diabolica, il marito desautorato, il poliziotto cinico, l’interprete mortificato, e via così), li lascia spesso interagire con la ‘fotografia da vetrino’ di Edgar Moura, li nasconde di spalle o li mostra nelle loro gelide occhiate verso l’altro, ma anche non consegue quasi mai uno scarto di afflato. Anche quando non è che la storia lo richieda, ma lo stesso sviluppo del dramma ne ha appena dettato l’accadere. Ecco, è questo vuoto emotivo, una certa approssimazione per differenza e non per sommatoria di spirito espositivo, che qualche volta risucchia l’immagine in un mulinello di allontanamento. Certe formalità risalgono questo ‘laboratorio clinico dell’oppressione’, con una forzatura appena percepibile. Ma percepibile, appunto.
Per il resto, se si decide di seguire l’irta salita del film, è innegabile che non sia difficile poi apprezzarne la grottesca valenteria nel posizionare un piccolo gioco alla Ionesco all’interno di un grande lavoro di sceneggiatura. Forse uno dei film più apprezzabili in quel dannato rincorrere un linguaggio cinematografico davvero spurio, e che tenta di presentare la sensibilità e l’aridità dell’uomo attraverso poche tracce di finzione ellittica. Quindi, almeno tenta.
“No money, no Portugal”…
Nel primo pomeriggio del 31 dicembre 1997, la passeggera ucraina Maria Itaka scende da un aereo di linea sulla pista dell’aeroporto di Faro, nell’Algarve lusitano. Deve incontrare il marito, il medico Gregoire, che di suo in Portogallo fa di tutto per campare tranne che il medico. Ha deciso di passare con lui le feste di fine anno e di fermarsi a Lisbona fino agli ultimi del mese di Gennaio.
Non sa, non immagina di certo, che finirà ben presto stritolata dalla maniacale osservanza delle regole (e della altrettanto evidente volontà di negare dei diritti fondamentali), di una solerte ispettrice della locale polizia aeroportuale. Costei, una Isabel Ruth nel pieno della sua maturità istrionica, inizia una lenta discesa negli abissi della burocrazia; prima un morboso vivisezionare le carte di imbarco, il passaporto e tutto ciò che riferisce del perché quella donna è lì a Faro, poi l’attenzione si rivolge sulla somma in denaro che la donna ucraina ammette di portarsi dietro. In un inarrestabile crescendo di prevaricazione e di arroganza, gli ‘inquisitori’ si affannano sui bagagli (rovistando tutto, scartando regali, mettendo le mani su alcune foto e cercando di scavare negli affetti personali della loro ‘vittima’), ed infine, al culmine della ‘dominatio’, passano ad ispezionare gli anfratti più intimi del suo corpo. A decidere, addirittura, se la donna può o non può farsi una vitale dose di insulina. È questo crescendo – alla fine allucinante –, che rende la narrazione filmica degna di nota, e il contrappuntare che fa il regista di suoni, scorci e geometriche allusione all’ordine mortale della legge, con sapienza ci viene più volte offerto. La costante richiesta della donna di poter avere un avvocato dalla sua parte, di avvalersi dei contrappesi della ‘legge’, non viene mai assecondata. Quando il marito, allontanato in manette dalla sala d’attesa, tenta di ovviare a questa mancanza, si ritrova un paese in festa che ha obliato i suoi doveri di precetto e le sue ordinanze procedurali. In questo vuoto, nel clandestino emergere di poche figure secondarie che sopravanzano la norma, che sfoltiscono il diritto, che hanno quindi carta bianca nell’infrangere ogni dettato ed assumono in sé la regola di dare vita o morte (impressionante è la scena in cui Maria, rischia di andare in coma perché le viene negata l’insulina), peso e direzione all’esistenze altrui. Alla fine, Maria Itaka sarà costretta a scegliere un biglietto da 750 dollari per la Russia, meta di certo da lei non ambita, o rimanere per chissà quanto tempo prigioniera dei suoi aguzzini.
Nella realtà dei fatti, perché questo film prende spunto da una storia realmente accaduta, i due avversati si chiamavano Tanya e Kita, erano due giovani medici laureatisi all’università di Donetsk; Kita, di origini senegalesi, era da un paio di mesi in Portogallo, mentre la donna lo aveva raggiunto per passare il Capodanno con lui e fargli avere una piccola somma in denaro, necessaria per sostentarsi e per affittare un’abitazione decente. Tanya/Maria, ‘spedita’ come una reietta in Russia, tornerà via terra in Portogallo. Potrà riabbracciare il suo uomo, si integrerà così bene con la comunità ospitante che diventerà una delle più affermate esponenti del Consiglio portoghese dei Rifugiati; sarà tra le fondatrici del servizio “SOS – Migranti” e, dopo un felice esame, verrà abilitata a svolgere attività medica nel distretto di Lisbona.
Orsù allora, mariniamo le biblioteche e andiamo a studiare diritto costituzionale nelle sale d’aspetto degli aeroporti, ferriamo le nostre conoscenze di etica e di morale sui vagoni abbandonati dei treni dispersi nella notte, ripassiamo il codice civile nelle latrine delle carceri, andiamo a conoscere i principi fondamentali dell’educazione civica nelle infermerie dei pronti soccorsi, a sdottrinare di politica e di economia sui freddi giacigli degli obitori di frontiera! Così conviene, così è chiaro…
“Marido, aqui, Portugal”…
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