Regia di James Franco vedi scheda film
È vissuta, povera donna solitaria, sola con il suo orgoglio, cercando di far credere diverso alla gente, nascondendo il fatto che la sopportavano e nulla più, perché non era ancora fredda nella bara che la caricavano sul carro per andare a seppellire a quaranta miglia di distanza, facendosi beffe del volere di Dio.
Capisco le perplessità che il film di Franco può suscitare [vedi l'opinione di Mulligan71] che alan smithee condensa con "le inevitabili lacune ed ingenuità". Probabilmente nuoce all'opera una adesione appassionata al romanzo di Faulkner che si traduce in uno schematismo nella messa in scena [l'abuso un po' naif dello split screen]. Dico 'probabilmente' perché il regista, nell'affrontare un testo così problematico quanto a struttura e stile, in un contesto di dubbi e radicali incertezze sulla validità di ogni possibile plot, invece di proporre una narrazione lineare fallimentare [Lord Jim-Richard Brooks, Ulysses-Joseph Strick, ecc], assume su di sé il rischio di ridurre la complessità dell'opera entro una griglia 'formale' [split screen] per connotare le molteplici voci [stream of counsciouness] dei protagonisti, - compreso quella della madre morta, - e le peripezie di ciascuno di loro in un caos, solo apparentemente, visivo che, a visione ultimata del film, si fa narrazione ordinata degli eventi cui si è assistito: il viaggio di sei giorni della bara di una madre morta dalla contea faulkneriana immaginaria di Yoknapatawpha a Jefferson tra le insidie dei luoghi e quelle degli uomini.
Film moderatamente sperimentale, As Lay I Dyng, si riallaccia, inconsapevolmente?, alla teoria del ‘caos informativo’ propugnata negli Anni Sessanta all’interno del Gruppo 63 [cito a memoria una frase di Umberto Eco dell’epoca: ‘solo dal caos può nascere nuova informazione’, oggi lo stesso lamenta il dilagare delle comunicazioni online!]. “… una tecnica registica che alla lunga infastidisce”, scrive Mulligan71: una frase di per sé legittima in negativo che è riscontro positivo nella quarta di copertina del romanzo, a firma di un altro illustre capostipite del Gruppo 63, Alfredo Giuliani:
"La struttura e lo stile di Mentre morivo esercitano un fascino, a volte esasperante, soltanto se il lettore accetta la sfida di mettere in atto tutta la sua disponibilità percettiva. Bisogna cogliere insieme l’assurdo, il comico, il simbolico, l’in-concluso, la ridicolaggine che incombe sulla tragedia, l’enigma che non si risolve."
A parer mio, questa frase può valere per il film di Franco dal quale, dopo l’invisibile Child of God tratto dal romanzo omonimo di Cormack McCarthy, spero mi sorprenda con l’ancora più complesso romanzo di Faulkner, L’urlo e il furore [che è in fase di lavorazione], scritto nel 1929, una vera bestia nera per molti lettori perché a differenza di Mentre morivo che compendia in 56 monologhi dei componenti della famiglia Budren, i quattro figli e il padre, qui la narrazione è un groviglio inestricabile di voci e punti di vista in soggettiva dei protagonisti del romanzo; innegabile è il fascino che L’urlo e il furore eserciterà su Cent’anni di solitudine di Garcia Marquez nel quale il tema della morte sconfina nei leggendari ‘dare voce ai fantasmi’.
Addie Burden non è, nella storia letteraria, la prima morta che osserva come fosse viva il tramestio dei vivi attorno al suo letto di morte. La Morte di Ivan Ilich, 1888, di Tolstoj ne è un precedente mirabile, anticipato dal caustico Memorie dell’aldilà di Machado de Assis, 1881.
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