Regia di James Franco vedi scheda film
Premettiamo una cosa. Non sopporto l’iper-attivismo di James Franco e la sua continua voglia di mettersi in gioco. Il motivo è semplice: se sprechi le tue energie su più fronti, è chiaro che prima o poi qualcosa ti sfugga di mano. E peccato che a sfuggirgli di mano sia proprio una delle opere più affascinanti di Cormac McCarthy, quel figlio di Dio che tanta disperazione emotiva ha regalato negli anni al sottoscritto.
Con una regia ellittica e persa a compiacersi, Child of God rimane strettamente dipendente dalla volontà di Franco di stupire e stupirsi. Poco importa quanto Scott Haze, chiamato a interpretare il necrofilo e disadattato Lester Ballard, si sforzi con la sua recitazione muscolare e sempre sopra le righe di generare un legame di empatia e immedesimazione per il suo personaggio. Il bello dell’antieroe o dell’eroe negativo, come direbbero coloro che masticano un po’ di Propp, consiste nel riuscire a catturare il lettore/spettatore portandolo a sperare nella migliore forma di salvezza er chi si è macchiato delle più nefande malefatte. Nel Child of God di Franco manca proprio ciò: nella lunga sequenza finale, speri infatti che Ballard muoia per levarselo finalmente di torno, a causa di tutte quelle brutture di cui si è reso artefice. Non basta una scena di pianto a farci capire da cosa nasca la sua umanità deformata, non basta una voce fuori campo a spiegare il passato, non basta una suddivisione in tre capitoli che dovrebbero portare alla “resurrezione finale” e non basta cercare di rendere il tutto accattivante giocando sulla tragicomicità.
Chi troppo in alto vola si brucia le ali. Salviamo però la fotografia (non può essere altrimenti) e una colonna sonora folk (a base di banjo, chitarra acustica e armonica) che, firmata da Aaron Embry, restituisce in suoni quelle percezioni visive e mentali che le immagini non riescono ad evocare.
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