Regia di Alexandre Aja vedi scheda film
La migliore eredità lasciataci da Wes Craven si chiama Alexandre Aja e Horns è il film che, remake craveniani a parte, si avvicina di più al maestro di Cleveland. Spregiudicato e giocoso, Horns, tratto dall’omonimo romanzo del pluripremiato Joe Hill, ovvero Joseph Hillstrom King, figlio di Stephen, pubblicato in Italia come La vendetta del diavolo per i tipi delle Sperling & Kupfer, richiama nella messa in scena, nella regia e nelle tematiche il glorioso cinema di Wes Craven filtrato per il talento indiscutibile dell’intrigante regista di Haute Tension (2003).
In una piccola comunità montano-costiera che ricorda molto la Twin Peaks di David Lynch, Ig Perrish è accusato della morte della sua fidanzata, Merrin, ma non ci sono ancora le prove schiaccianti per inchiodarlo e vive così in libertà braccato dai giornalisti, dal padre della ragazza e dal fuoco della vendetta che gli brucia dentro. La mattina successiva ad una grossa sbronza, una delle tante, a Ig iniziano a crescere due corna diaboliche. Qui si entra nel fantasy e il film prende una piega tutta diversa dal giallo indie delle prime immagini. Le corna hanno il potere di liberare il peggio dalle persone che Ig incontra: le loro frustrazioni, le loro ossessioni sessuali e i segreti non detti, odi e rancori, affiorano naturalmente come un corpo dall’acqua e smascherano così l’ipocrisia della società, soprattutto di quelle piccole comunità, tanto care al padre dell’autore, che sono una vera e propria America in miniatura.
Non c’è solo un ottimo lavoro originale alla base del successo di Horns. L’enfant terrible dell’horror contemporaneo, molto spesso scalciato da nomi come Rob Zombie e Neil Marshall, conferma le sue grandi capacità registiche e visionarie attraverso l’utilizzo di un’iconografia fiabesca virata al fantastico nero dove il bucolismo del locus amoenus si trasforma in un inferno vegetale, verde, umido e viscido come le serpi che lo popolano, preservando la compostezza e la bellezza di un quadro preraffaelita – e dopotutto il corpo senza vita della giovane Merrin ricorda la Ofelia di John Everett Millais.
Un film magico dove tutto è perfetto: dalla messa in scena ai tempi dei vari segmenti narrativi, neri, tragici e umoristici; dalla regia consapevole del materiale narrativo e profilmico a disposizione fino alle buone interpretazioni di Daniel Radcliffe, Juno Temple, Joe Anderson e Max Minghella, supportati da caratterizzazioni come quella di David Morse e Heather Graham.
Se c’è una cosa a cui ci ha abituato Alexandre Aja anche nei suoi titoli minori, come Mirrors (2008), è la sua capacità di creare sia immagini forti, affascinanti e durature all’interno dell’immaginario horror attuale, sia di dar loro una vita sensibile attraverso strategie espressive uniche e personali, le stesse che lo avvicinano al cinema del mentore Wes Craven.
C’è anche un po’ di Stand by me (1982-1986), ovviamente, e un po’ anche della grande narrativa americana per ragazzi. Centrale resta infatti, sia a livello narrativo che tematico, il rapporto sentimentale e storico tra i quattro amici della pellicola: due fratelli, Radcliffe e Anderson, il miglior amico di sempre interpretato da Minghella e infine il ciccione molesto che oggi fa lo sceriffo in paese, interpretato da Michael Adamthwaite. Horns non è solo la storia della risoluzione di un mistero, ma anche un di quegli affreschi generazionali che alla narrativa americana piacciono tanto. I temi dell’adolescenza, l’amicizia, la ribellione, il rischio, l’avventura, la natura indomabile, il mistero della vita, dell’amore e del sesso, combinati tutti insieme innervano da sempre i racconti protagonizzati dai discendenti di Huckleberry Finn. E anche Horns, oltre al primo plot mystery, racconta anche la storia di un gruppo di amici lungo l’arco della loro vita.
Il film infatti si sviluppa su tre livelli temporali: il tempo presente della storia, il passato prossimo della notte del delitto, fino al passato remoto dell’infanzia e adolescenza dei quattro amici protagonisti che si ritroveranno quasi trentenni sul luogo del delitto per lo smascheramento finale. Anche questa risoluzione tipica da giallo ad enigma, usata sapientemente anche dal Wes Craven della Scream Saga (1996-2011), non risulta banale e appiccicata, ma viene dotata di una forza narrativa e visiva tale da innescare nello spettatore il piacere della visione di un’occorrenza tematica e narrativa piacevole e desiderata, senza per questo risultare prevedibile o banale. Conferma questa che non è importante cosa ci viene detto o raccontato, ma il come. E in questo l’estetica del cinema horror anni ’90 è molto pertinente ed evocativa. La patinatura e la composizione pulita della scena rimandano al televisivo e quindi a un linguaggio e a un immaginario diventati imperanti e seminali con la fine degli anni ottanta, ma soprattutto con gli anni novanta, e oggi alla base della riproduzione edulcorata del digitale.
Se i tre livelli di composizione del prodotto filmico sono il livello narrativo, quello espressivo e quello tematico-iconico, ovvero storia, discorso ed esistenti, Alexandre Aja ha saputo fin dal suo primo film, passando per remake e riscritture, armonizzare i tre livelli senza che uno prevalesse sull’altro. Il risultato è un cinema sì visionario, dalle grandi idee visive, ma anche dall’ottima padronanza del linguaggio cinematografico, erede delle grandi lezioni seventies, che gli permette di giocare con i temi e i motivi di un immaginario sempre pronto a nuovi dispositivi simbolici come lo sono l’horror e il fantastico nero.
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