Regia di David Gordon Green vedi scheda film
Un film frustrante questo di Green, un esemplare paradigma di come le aspettative teoriche iniziali e la buona volontà non sempre siano traducibili in un (cinematograficamente) felice risultato pratico. Al regista probabilmente premeva staccarsi dai suoi lavori recenti (non memorabili), affidandosi alla parimenti forte voglia di rivalsa del protagonista Nicolas Cage, il cui nome appare ormai sempre più legato all’immaginario “scult” cinematografico, grazie alle sue epiche interpretazioni “alimentari”.
Il film, presentato in concorso alla Mostra di Venezia del 2013 (e per questo infarcito di sterili riprese sghembe finto-autoriali), narra di uno spaccato di esistenze nel depresso nulla delle provincia texana, dove un’umanità allo sbando tira a campare, in un modo o nell’altro. La costruzione scenica dello squallore ambientale imperante è rappresentato con un profluvio di particolari, dal becero al disturbante, e rappresenta la parte migliore del lavoro di Green, seppur eccessivamente lunga e con una resa, quasi documentaristica (l’interprete del padre di Gary sembra che fosse realmente un “homeless”, che morì poco dopo le riprese – Fonte: recensione di FilmTV cartaceo), a volte irritante; questi quadretti delle ordinarie “scorie” architettoniche del sogno americano vengono poi popolati dalle numerose anime che li abitano, in un progressivo sprofondare nell’abiezione e nell’indigenza.
Nell’unione di questo due aspetti (impianto scenico/personaggi) sta la più vistosa mancanza del film: una (quasi) totale slegatura causale separa infatti i due ambiti, con situazioni spesso monotone affastellate una sull’altra senza apparente senso e misura, sicuramente utili nel tratteggiare la deprimente e angosciosa ripetitività della realtà sociale analizzata (la storia è un adattamento di un romanzo di Larry Brown del 1991) ma che rendono spesso faticosa la visione. Difetti forse equamente attribuibili ai limiti sceneggiativi o alla fonte letteraria (che non ho letto), ma che avrebbero potuto essere attenuati da una maggiore stringatezza e oculatezza registica (per intenderci, la resa di “Affliction” del 1997 di Paul Schrader è lontana anni luce).
Incredibilmente, infatti, Il tema principale (il rapporto Joe/Gary) viene paradossalmente mal sviluppato in tale profluvio di “situazioni” monche: i due, che si incrociano raramente nelle oltre due ore di durata della pellicola, inverosimilmente si affezionano l’uno all’altro, fino alle estreme conseguenze del finale.
Gli interpreti secondari, infine, tenuto conto dei difetti di fondo già citati, fanno il loro lavoro “caratterizzante” fino in fondo, senza particolari picchi ma con onesta professionalità; a deficitare è senz’altro la prova di Cage: infagottato e inflanellato in un ruolo di frustrato dal cuore d’oro, “in nuce” congeniale alle sue capacità recitative, offre una prova realmente mediocre. Anzi, spesso, il suo bofonchiare battute con scarsa verve tra una lattina, una sigaretta e un whisky (senza scherzi, la maggiorparte del suo tempo in scena lo passa bevendo, mangiando o fumando), risulta alfine particolarmente fastidioso.
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