Regia di Bartosz Konopka vedi scheda film
Lek wysokosci. Letteralmente, paura dell’altezza. Acrofobia. Quella che vuole sconfiggere il padre di Tomasz, arrampicandosi sul tetto della sua casa. L’uomo è schizofrenico, da molti anni. Vive da solo in un appartamento sporco e caotico, che sembra il ritratto scenografico della confusione mentale. È il santuario di un individuo che ha passato la sua vita a leggere, ad accumulare oggetti, a sbattere la porta in faccia al mondo. E a lanciare qualche proiettile dalla finestra, giusto per autodifesa. Per colpire chi non gli va a genio, e, soprattutto, chi osa turbare la sua pace. Un comportamento sociopatico che Tomasz non crede sia irrimediabile. Non può accettare l’idea che l’amore di un figlio sia incapace di guarire quel male, che sembra soltanto un funesto corollario della solitudine e della fame di affetto. Forse la pazzia è solo energia che ha smarrito la strada, e si aggira disperata attraverso un mondo estraneo, nel quale ha perso l’orientamento. È un’irrequietezza senza direzione che riempie l’aria di una nervosa incandescenza. Il regista polacco Bartusz Konopka copre l’obiettivo con un filtro blu. In questo modo produce un’atmosfera crepuscolare, ma fredda, di luce al tramonto che non vuole andarsene, e così resta, al di qua dell’orizzonte, tingendosi del colore argenteo della notte. È la luminescenza che rischiara l’agonia, e permette di vederci dentro, come se fosse una battaglia combattuta sotto il sole, quando la sera è ancora lontana. Tomasz insiste a scorgere un oggi normale ed un domani possibile in quell’essere umano che da tempo, ormai, non è più in grado di vivere nel presente. Lo va a trovare, lo porta via dall’ospedale psichiatrico, per costringerlo ad esistere nel mondo. E, ogni volta, riesce a portare la sua sfida alle estreme conseguenze, superando il limite di ciò che suo padre è in grado di sopportare, così che il suo comportamento finisce per superare i confini di ciò che, per gli altri, risulta accettabile. Tomasz vuole trascinarlo in un vertiginoso viaggio sul sottile crinale che separa la libertà individuale dall’assurdo egocentrico; è come ripetere l’esperienza di quando era bambino, e suo padre lo portava con sé a scalare le montagne. L’abisso incombe, ma lassù v’è il cielo. È la speranza azzurra che, sulla terra, si condensa in un bagliore elettrico e psichedelico, che concentra le emozioni e focalizza la ragione sugli scopi essenziali, quelli che sono, al contempo, i più semplici ed i più azzardati, come ridare la lucidità ad un uomo che ormai si nutre soltanto di sporadiche e futili suggestioni. Magari, anche se le stanze sono ingombre di rifiuti e cose inservibili, l’anima del passato non si è ancora esaurita, e stare insieme può ancora servire a far ripartire il discorso interrotto, e costruire qualcosa di nuovo. Le parole sono spesso incomprensibili, oppure totalmente assenti, ma anche non capirsi e litigare è un’occasione per sentirsi più uniti. Tomasz, che è un noto giornalista televisivo, una sera, anziché leggere in diretta le notizie del telegiornale, rimane immobile e zitto, a fissare la telecamera. Poi si alza e se ne va. Qualcosa lo sta rendendo simile a suo padre. Forse è la malattia, che ha carattere ereditario, o forse, è, più semplicemente, la volontà di partecipare a quella mancanza di senso che è l’essenza della sua ribellione contro tutto e contro tutti. Al diavolo la fama e la routine, le regole e le sicurezze. C’è vita soltanto se non si smette mai di provare a cambiare, anche quando tutto sembra condannato a finire, e se si continua a cercare di tornare indietro, anche quando si pensa di essere giunti al fatidico punto di non ritorno. Tomasz, come suo padre, fino all’ultimo, non rinuncia a rischiare pesante. Perché solo così si muore, e solo così si vive. La follia, in fondo, è l’esempio che, a chi è in grado di intendere, indica la via da seguire.
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