Regia di Steven Soderbergh vedi scheda film
Con Dietro i candelabri, Hbo conferma, una volta di più, quanto una televisione diversa sia possibile, che non ci debbano essere tabù, che la narrazione e il cinema possano essere liberi di esprimersi.
Oltre al tema in sé - una figura a dir poco ingombrante - c’è molto di più, merito di Steven Soderbergh in quella che a oggi (2016) rimane la sua ultima regia cinematografica (del 2013, al pari dell’altrettanto avvincente Effetti collaterali) ma anche del consono, e multiforme, script di Richard Lagravenese.
Da tempo artista di grande successo, nell’estate del 1977 Liberace (Michael Douglas) conosce il giovanissimo Scott Thorson (Matt Damon) e intraprende con lui una storia d’amore.
Un legame di passione che deve fare i conti con enormi diversità; un lato pubblico che deve mantenere riserbo e l’approdo di Scott a uno stile di vita troppo distante e duro rispetto alla sua essenza di giovane uomo comune.
I sentimenti più radicati sopravvivono anche alle discordie più profonde.
Per un film del genere, esiste una conditio sine qua non, ossia riuscire a essere liberi e sinceri nonostante non sia facile.
Steven Soderbergh è senza dubbio uno dei pochissimi registi moderni in grado di rispettare questa regola non scritta, Hbo un network che lo consente.
Tutto parte dal casting; due maschi alfa quali senza dubbio sono, seppur in modo differente, Michael Douglas e Matt Damon, rappresentano una scelta corroborante agli intenti, possibile solo per un autore di grido, sul quale riversare una fiducia totale.
Il risultato si vede chiaramente, una rappresentazione luccicante, con mani di velluto che volano sul piano, per quella che diviene una prigione d’amore e dorata.
Il regista scardina il possibile biopic assumendo il punto di vista di Scott, andando così nettamente sul privato, vittima di Cupido e in seguito di una posizione preminente quanto di una personalità accesa che crea un’inevitabile subordinazione, tra un’invadente chirurgia estetica - rappresentazione dell’annientamento della propria personalità nel suo essere, portata oltre - e le droghe, intese come rifugio incongruo.
L’inquadramento si giova di una mano leggera nelle riprese, letteralmente si plana sulle scene, mentre il montaggio è educato, ma riesce anche ad accendersi, radiografando la distanza tra immagine e realtà.
Il resto, e non è poco, arriva dalle interpretazioni; Michael Douglas emana un carisma pronunciato partendo dalla voce (vederlo in italiano è un mezzo delitto), Matt Damon, che d’imbarazzo ne ha provato, non lo dà a vedere, mentre intorno a loro spiccano un Rob Lowe tirato, letteralmente per avere quell’espressione (con applicazioni dietro la testa), una vivissima Debbie Reynolds, un redivivo Dan Aykroyd e un insolito Scott Bakula.
Grazie a tutto questo, Steven Soderbergh riesce a raccontare un’intensa, e tormentata, storia d’amore come se fosse in un ambiente etero, poi lungo il finale riesce a gestire ellissi totalizzanti, mentre il suo sguardo più geometrico non manca di palesarsi nei tratti più gelidi, per una composizione che riesce a essere lucida ma anche sentita.
Un equilibrio assai raro.
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