Regia di Steven Soderbergh vedi scheda film
«Non hanno idea che sia gay», si sente dire il giovanissimo Matt Damon, nel teatro di Las Vegas dove Liberace/Michael Douglas trascina la folla col boogie woogie. Alla fine degli anni 70, il pianista dai costumi oltre i limiti del kitsch era ancora considerato soltanto un eccentrico showman, e lui allontanava i sospetti sulla sua sessualità millantando fidanzate. Nella dissonanza fra palco e lenzuola infila l’obiettivo Soderbergh, scivolando dietro i candelabri e dentro i corridoi del palazzo camp di Liberace, inseguendo il mélo della penna di LaGravenese ma raggelandolo nella geometria del suo cinema. Uomo di spettacolo capace di tenere in pugno il pubblico, amante vorace incapace di contenere il suo appetito, Liberace è morto quasi 30 anni fa ma è figura di modernità estrema: falsificatore geniale di un’icona costruita a tavolino, intercettatore infallibile dei gusti dell’audience. Un incantatore di serpenti che diventa emblema di una questione identitaria estrema e dolorosa (anche fisicamente): forgiando il volto dei suoi toy boy sul proprio con la plastica, proponendosi come padre adottivo pur di costituire una famiglia con il compagno. L’ennesimo “ultimo” film di Soderbergh è la nuova prova di un sublime coreografo di corpi attoriali, in cui Damon e Douglas (entrambi almeno vent’anni troppo vecchi per il ruolo, entrambi perfetti) si spogliano dei rispettivi status per abbandonarsi a isterie e tenerezze, trasfigurati dalla bravura prima che dal make up.
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