Regia di Steven Soderbergh vedi scheda film
“Dietro i candelabri” è il ventisettesimo lungometraggio del regista di Atlanta Steven Sodebergh.
Con un dire chiaro e senza preamboli, con un porsi lucido e poco incline al falso moralismo di certa epoca (romantica) l’americanissimo regista sfodera una storia che non gli par vera per dare sfoggio al fasto dell’eccesso di un pianista per ammaliarci del vissuto e decantare l’antefatto come postura di un finale smorto, assente di un cinema pieno di niente. Al tentativo di chiosare sul mondo fasullo e kitsch di un uomo e il suo intorno come quello del cinema pomposo e pompato (metafora subito in vista dopo poche immagini con un ciack da battere e un set in posa): tutto questo mentre la musica ‘show’ di Liberace è in pieno fermento davanti ad un pubblico plaudente e facilmente solleticato alle provocazioni goduriose del genio dell’intrattenimento ‘totale’.
Ciò l’intento e anche il volto del film (quasi documento intimo) del regista ma tutto appare diluito da una certa angustia e piattezza dei meccanismi facili e di sbiadite vocazioni al segno dell’animo ‘oltre’ un sogno che l’America non vede (nel suo tempo) e che oggi mostra in modo sminuito (quasi poco tangibile) in un susseguirsi di finzioni recitative (riuscitissime) sarcasticamente languide e prive di potenza evocativa. Tutto in mostra, tutto s’aggira, tutto in vetrina, tutto luccica, tutto in una scenografia elucubrante ma poco sentita e alla fine alquanto evanescente. E il ‘funerale’ al cinema che fu e al candelabro (unico) che pose l’uomo del business (musicale) s’afflosciano in una mirade di (com)partecipazioni (di festa) emotive serenamente piatte e di accecamento del liquido viscerale della compiacenza corporea. E il fisico impastato di Liberance (decadente e flaccido) assurgono a simbolo di una nefandezza produttiva (e epilogo del cinema) prima che la serata regale dell’Oscar (a cui Liberance vuole arrivare per mostrarsi) che danno il gusto macabro di un film salvagente (per la bravura del duo Douglas-Damon) ma che rischia di affogare (autoeliminando il proprio gioco da cui parte) in un marasma di considerazioni poco convinte e alla fine alquanto modeste.
E di fronte ad una pellicola del genere non si ha voglia di dichiarare (da parte di chi scrive) una passione a dismisura: ciò che rigenera il fiato delle parole è l’eccessiva postura di ogni fardello in posa e di ogni posa decaduta ma, contriaramente agli intenti, ogni spasmo appare corto e non viene fuori un volo di fantasia salutare per lo spettatore e il letto di lacrima-mortuaria (nel clamore di una bara in fila) si perde in un nefasto ‘fuori-onda’ (da rimontare) per il cinema stesso. Le chiose hollywodiane (di chiusura di lustri e lustrini) non volano più in alto ma lo spettacolo (sognato dall’amico Scott) va avanti senza più un pubblico. Il circolo vizioso di soderbergh quindi appare poco incisivo, sbiadito e alquanto (troppo) poco appariscente. Chi sa se ogni ricordo lontano (si parte dal 1977 quando la carriera di Liberace è già all’apice) deve fare mistura di parabole o meglio di iperboli referenziali e auto miserevoli per ogni buon atto di storia e di fatti già scritti: poco manca alla chiusura di tutto (senza contare la tristezza dei volti di perle e dei visi rattoppati). Viva ogni denaro in volto, viva ogni operazione rafforzante (per un sesso perdurante), viva ogni bacio senza confini, viva ogni sculturea moda, viva ogni eccesso spudorato ma la pellicola ne esce sconfitta nel non saper raccontare appieno una certa direzione di intenti da (di)mostrare e la buona (eccellente per certi versi) prova della coppia Douglas-Damon finisce lì nel trambusto della foga del letto o tra i flutti di un bagno di tutta il set (mentre è d’obbligo mostrare il di dietro di ognuno mentre i flutti voraci invadono la stanza per schernire ogni fuoco di un cinema già in lista d’attesa per un funerale). E sì che lo schiumone ingombrante, rimescolante e inverecondo del ‘party’ di Blake Edwards sarebbe stato demistificante e scullacciante per un cinema moderno presuntuoso e pretenzioso (questo e non altro, questi set e non miseri mondi lontani che sapevano illustrare il vuoto in ben altro modo).
La storia di Wladziu Valentino Liberace (pianista di grande valore) e del giovane Scott Thorson nella fase finale della vita dello showman rimane un manifesto con poco mordente e condensato di forzature alquanto prive di spessore con offuscamenti di ruoli di contorno e dirottamenti nel posticcio. Dispiace per il duo ma la regia non dà il vero ‘intrattenimento’ e ogni buona cosa rischia di cadere ad ogni piccolo inciampo (amche perché essere ‘fatti’ dà gusto a chi recita in proprio ma poca sensazione salubre per una testa pensante che vorrebbe emozionarsi e non cadere con una bevanda insapore nella piscina già troppo pulita con un costumino da rattoppare).
Michael Douglas e Matt Damon colgono l’occasione per rifarsi tra loro, prendersi in giro e mostrarsi in pose ‘out’: tutto qui, per rimarcare la carriera e per distinguersi in mostre. Un’attesa cine che negli Usa è in televisione. Un evento alquanto appannato. Liberance che vola e Scott che sogna. Pare l’epilogo di una soap televisiva (forse si voleva fare questo). Si ricordano le partecipazioni di Rob Lowe (Dr. Jack Startz) e Dan Aykyoyd (Seymour Heller) che si confondono nel turbillion dei colori forti.
La regia di Soderbergh è da amministrazione controllata (qualche buona carrellate esterna per far finta di esserci).
Voto: 5.
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