Regia di Hélène Cattet, Bruno Forzani vedi scheda film
Esistono film talmente radicali ed estremi che l’espressione di un giudizio sul loro valore estetico implica di necessità una chiarificazione preliminare delle proprie posizioni teoriche e richiede di addentrarsi a fondo nel ginepraio della riflessione sullo statuto generale dell’arte. Non avendo però la presunzione di poter sciogliere questioni di irriducibile complessità, oggetto di contorsioni mentali da secoli, se non millenni di pensiero filosofico, mi limiterò semplicemente a rilevarne la cardinale importanza, soprattutto se l’opera in esame si mostra tanto intransigente quanto lo è Amer, primo lungometraggio della coppia franco-belga composta da Hélène Cattet e Bruno Forzani.
La pellicola tratta il tema della maturazione affettiva e psicosessuale di una giovane donna, ripartendo in tre sezioni distinte e separate da ampie ellissi la narrazione delle relative fasi di crescita della protagonista. Nella prima parte del film ci viene presentata in medias res una bambina turbata e al contempo attratta dalle prime manifestazioni delle pulsioni profonde del proprio Es, che si esteriorizzano nel ricorrere di una simbologia costantemente sospesa tra l’eros e il thanatos, in una rappresentazione tra le più efficaci mai viste al cinema delle inquietudini e dei mostri che abitano l’infanzia (già connotata in senso freudiano da un’immatura ma prepotente libido). Il secondo atto s’incentra invece sulla fase dell’adolescenza, in cui la protagonista acquista consapevolezza di sé e comincia a rivolgere le sue attenzioni al sesso opposto, ma senza per questo attenuare il proprio turbamento, puntualmente alimentato dai rimproveri superegoici della madre. Infine, la terza e ultima sezione ci mostra una donna matura ma palesemente frustrata, pronta a farsi cogliere da sfrenate fantasie erotiche e che in realtà sembra non avere affatto superato i propri complessi preadolescenziali: il finale ne espliciterà l’instabilità psicologica e la personalità disturbata senza lasciare adito ad alcun dubbio.
Questi dunque gli argomenti toccati dalla pellicola, ma in Amer ciò che davvero conta, in ultima analisi, non è tanto il cosa, quanto il come. Nonostante le tematiche forti ed impattanti, ad imporsi inevitabilmente all’attenzione dello spettatore anche meno avvertito, a sovrastare e dominare tutto il resto è infatti il livello più puramente stilistico-formale del film, il suo linguaggio macroscopico e aggressivo, unico aspetto che sembra davvero premere ai due giovani registi. Ed eccoci giunti alla questione cui si accennava poco fa in apertura: come giudicare un’opera d’arte in cui forma e contenuto si presentino in proporzioni assolutamente squilibrate, in cui alla potenza del significante non faccia riscontro un altrettanto potente significato? Perché l’incisività e la pregnanza stilistica di Amer mi paiono fuor di dubbio, è piuttosto sul senso racchiuso da tale perfezione formale che avanzo qualche riserva.
Si badi bene che non sto accusando il film di presentarsi come un esercizio di stile fine a se stesso, pura esteriorità avulsa da qualsiasi volontà o capacità significatrice: al contrario, Amer fa un uso sostanziale e nient’affatto decorativo del piano formale, lo stile vi è concepito e trattato come struttura intrisa di senso, funzione semantica necessaria, e non come futile orpello meramente esteriore. Ogni scelta tecnico-registica operata da Cattet e Forzani è motivata e subordinata ad una precisa volontà di significato: fotografia, composizione dell’inquadratura, montaggio, colonna sonora cooperano alla perfezione nel delineare le angosciose fobie erotizzate e i morbosi desideri repressi della protagonista Ana, facendosi specchio e oggettivazione delle tempeste emotive che scuotono i suoi più profondi recessi psichici. Ciò che invece mi sembra difettare in Amer è proprio il contenuto cui rimanda questa studiata e sorprendente struttura formale semantizzata, come se lo sforzo di giustificare funzionalmente un tale numero di squisitezze e geniali trovate stilistiche si appigliasse in realtà ad una materia vacua e poco approfondita, che non può certo reggere il confronto con il modo in cui viene plasmata e servita. In altre parole, la forma del film rimanda di continuo ad una sostanza, e lo fa nella maniera più intelligente possibile, ma tale sostanza si rivela infine scarna e semplicistica.
Detto questo, il dialogo più proficuo che lo spettatore può intrattenere con un siffatto film sarà dunque di natura eminentemente estetica e visiva, e non interpretativa. Amer va trattato per quello che è, e cioè innanzitutto una ricerca sperimentale sul linguaggio delle immagini e una brillante esplorazione delle potenzialità non ancora indagate del mezzo cinematografico. Lo si consideri alla stregua di una sinfonia di Viking Eggeling o Walter Ruttmann, un Entr’acte 2.0 in salsa psichedelica e onirica, senza cercare di interrogarne troppo il portato di senso psicosessuale, che risulta fondamentale in quanto permea di sé tutto ciò che concerne la forma del film, ma rischia di deludere le aspettative se preso singolarmente.
A questo punto occorrerà descrivere l’orizzonte estetico in cui l’opera prima di Cattet e Forzani ha l’ardire di inserirsi. L’operazione condotta dai due registi mira niente meno che all’ibridazione armoniosa di due estetiche contigue e congruenti, ma allo stesso tempo separate da un profondo divario diastratico: quella del giallo all’italiana degli anni 70, genere popolare per eccellenza, e quella ben più elitaria e avanguardistica del cinema surrealista, con tutte le sue propaggini. Fin dallo split screen dei titoli di testa, su cui risuonano enigmatiche note ripescate da una colonna sonora di Bruno Nicolai, Amer esibisce un sistematico riuso postmoderno degli stilemi distintivi del cinema di genere italiano degli anni 70 (panoramiche a schiaffo, zoomate repentine, primissimi piani leoniani), cui vanno ad aggiungersi precisi riferimenti sulla pista sonora (Morricone, Cipriani, Nicolai) e, soprattutto nella sezione conclusiva, la puntuale riproposizione dei topoi consolidati del giallo argentiano (il misterioso assassino di cui si vedono solo le mani guantate di cuoio, la villa fatiscente che cela dietro le proprie tappezzerie innominabili rimossi infantili, il ruolo chiave di dipinti, statue e bambole), con particolare riferimento, ovviamente, a Profondo Rosso.
Ma Argento e Bava costituiscono anche il trait d’union che consente alla pellicola di fondere questo recupero nostalgico del giallo con una sensibilità tipicamente surrealista, perfetto riflesso estetico delle tematiche freudiane affrontate dall’opera. Da questo punto vista, a rappresentare l’apice insuperato del film è la prima mezz’ora: un allucinante e traumatico viaggio nella psiche inquieta di una bambina perseguitata da mostri interiori e paure ataviche, che si dispiega facendo ricorso ad una visionarietà onirica sfociante in momenti di pura estroflessione mentale. Qui la fotografia si tinge di colori primari e secondari, rimandando direttamente alle monocromie al neon di Suspiria e de I Tre Volti della Paura, e accosta rossi fiammeggianti e blu elettrici, violetti alla Raúl Ruiz e verdi acidi in combinazioni che sono una goduria continua per la retina. In questa prima parte predominano i movimenti di macchina centellinati e le soggettive fluttuanti, a riprodurre gli sguardi invadenti che la protagonista Ana sente spiare la propria intimità. Il referente iconografico principale va inoltre ricercato a mio avviso nel capolavoro surrealista degli anni 40 Meshes of the Afternoon, della cineasta underground Maya Deren, che presenta un analogo uso opprimente della spazialità (scale a chiocciola, porte chiuse, stanze anguste) ed elementi simbolici simili (braccia che calano dall’alto, oggetti emblematici come lo sono qui il ciondolo e i granelli di sale, e soprattutto un’inquietante e sfuggente figura nerovestita che vaga di stanza in stanza).
L’adolescenza di Ana è introdotta da un preambolo in cui all’angosciante trasformazione psicofisica subita dalla ragazza corrisponde una deformazione dell’immagine e del suono. Subito dopo, la memorabile sequenza della formica apre la strada alla panerotizzazione che caratterizzerà tutto il resto della pellicola: le maglie della regia si fanno ancora più discontinue e frammentarie, i primi piani cedono il posto ad inquadrature così dettagliate da frantumare l’immagine in un mosaico di tasselli anatomici, con esiti al limite dell’astrazione, il sonoro si satura di aneliti e sospiri ansimanti. Il risultato è una rappresentazione percorsa da una profonda e vorace sensualità, ma che allo stesso tempo comunica un senso di opprimente claustrofobia, impedendo allo spettatore di farsi largo nel mondo raffigurato e mantenendolo sempre a pochi micron di distanza dalla pelle sudata dei personaggi. Sono esemplari in questo senso la sequenza del gioco di sguardi nella bottega e quella della corsa dietro al pallone, in cui il dettaglio si fa per di più mosso, sovraesposto e sfuocato e il serrato montaggio alternato, accompagnato dall’intrecciarsi dei respiri affannosi, mima senza alcun dubbio un rapporto carnale (e lo stesso vale per l’incontro con i motociclisti e il viaggio in taxi). Ma il montaggio riveste una fondamentale funzione di senso in tutta la pellicola, giocando con i raccordi di direzione per far cozzare elementi contrapposti o al contrario confondendoli e amalgamandoli con alternanze epilettiche, ripetendo l’azione più volte in modo da rimarcarne il significato o all’opposto elidendo gesti chiave, ma intuibili dal dialogo delle restanti inquadrature.
Nel finale del film il ritorno della protagonista alla villa della propria infanzia coincide con il definitivo risveglio di tutta la sua libido repressa, che ancora una volta si oggettiva in un’ignota minaccia persecutrice che la spaventa e allo stesso tempo la attrae morbosamente. Riemergono con violenza tutto l’eros e il thanatos irrisolti covati fin dall’infanzia e con essi riappare anche la simbologia legata all’acqua, metafora di carica libidica, che punteggia di continuo la pellicola, apparendo per la prima volta proprio in coincidenza con lo sconvolgimento cromatico successivo alla scoperta dell’eros. L’esito sarà all’insegna di un crudo grandguignol autodistruttivo, in una suggestiva sequenza notturna che non si farà problemi a citare ripetutamente il manifesto surrealista Un Chien Andalou di Buñuel e Dalì, sostituendo al taglio dell’occhio quello metaforico di una bocca dai denti voluttuosamente serrati. Voluttà che non si placherà nella protagonista nemmeno post mortem.
Tirando le somme, Amer risulta un’esperienza estetica unica e inimitabile, in cui lo sperimentalismo della forma non sovrasta, ma semmai vivifica il contenuto, e se quest’ultimo non si può certo dire ben sviluppato, complici anche la quasi totale assenza di dialoghi e l’estrema brevità della fabula compresa dalla narrazione, a supplire ampiamente a questa mancanza costitutiva ci pensa una regia che non smette mai di stupire per originalità inventiva e pregnanza di significato.
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