Regia di Spike Jonze vedi scheda film
Filmfiume in piena espressività - corporea, cerebrale, emozionale - che inonda gli spazi bianchi tra esistenze che (non) si corrispondono. Esistenze, accidentalmente reali e virtuali, come - sempre - virtuale è il (proprio) ricordo di una storia "vera". Il vissuto come inafferrabile tessuto interconnesso tra amore e psiche in reminiscenze oblique e pieghe contorte/distorte del presente (eterno).
Her è un'impetuosa onda virale che trasmette frequenze modulate sulle (in)formazioni di codici personali identificativi, un'eruzione verbale e verbosa incontenibile, a tratti finanche faticosamente affrontabile ma insieme ineluttabilmente necessaria (alla stessa maniera con cui si rifugge e si è attratti da un sogno/tormento ricorrente), forse esasperata ed esasperante, sicuramente viv(id)a.
Su un impianto minimal pop, con vibrazioni art rock, e una potenza evocativa malickiana - che scaturisce dalle parole, che si nutre di silenzi e ombre e colori e percezioni, che si espande nella volta immaginifica di tenui atemporali scenari futuri(stici), che si inietta negli occhi drogati di sguardi rapiti - l'ambizios(issim)o quarto lavoro di Spike Jonze è un'opera bellissima e fragile di rar(efatt)a fascinazione. D'imperfezione connaturata e radicata, inevitabile quando si bracca ciò che non può essere catturato bensì tutt'al più sfiorato.
Un viaggio cosmico allucinante, impossibile, nell'astrattezza tangibile dei meandri labirintici dell'animo, negli anfratti della coscienza, nelle fratture che si creano in conseguenza ai sommovimenti dall'interno, tra bisogni di rimuovere-razionalizzare-(ri)elaborare, sogni di evasione, istinti di (pos)sesso e affanni congeniti.
Incomunicabilità 2.0 tramite l'eccesso, l'ininterrotto flusso e riflusso di scambio di dati, informazioni, (sovra)esposizioni: i nuovi preparati tecnologici fungono da surrogati delle già impervie arterie relazionali. Ed il maelstrom di voci nella folla è un folle (auto)isolamento, un'alienazione complessa compressa e compiuta - "normale" - che solo (la propria) Lei può sospendere. E/o portare a nuove, estreme vette.
La Luna, probabilmente.
Non resta che (la disperata ricerca del)l'amore (la voce all'altro capo dell'universo che soddisfa impulsi primordiali); (r)esiste l'amore, evapora l'amore in in(de)finite particelle che portano con sé tutta la dolcezza e la nebulosità di un sentimento totalizzante e annichilente, meraviglioso e meravigliosamente sfuggente.
Poi il vuoto. Inevitabile. Ancora squarci lividi da decriptare, resettare e colorare; territori spogl(iat)i in cui avventurarsi. In attesa di una nuova luce che esploda in mille raggi umorali, che si estenda fino all'orizzonte delle irreprimibili tensioni emotive. Che riaccenda il respiro.
Un caleidoscopico studio c(l)inico sperimentale dell'essere-uomo (dis)sezionato nella sua più depressa, impenetrabile, contradditoria proprietà intrinseca ed intima [(in)disciplinata da forza e debolezza, equilibrio e instabilità, gioia e morte/i]: il ritratto-mondo pennellato da Jonze con formali, rigorose trame logiche (la superficie teorica delle cose) viene dallo stesso immerso nelle melmose viscere dell'uman(issim)a propensione a (non) abbandonarsi all'altro/a (e quindi a - e in - sé).
Esegesi al limite, che rivela talora tratti opprimenti e umori appiccicaticci, eppure profondamente attuale, (volutamente) deform(ant)e, sublimata in un linguaggio sovraccarico paradossalmente muto e artificiale/artificioso che usa le strutture nervose dell'amigdala fino ad arrivare al cuore pulsante delle emozioni. Emozioni trattenute, implose, rimosse; ma anche sintomo (e simbolo) passionale di sensualità e furore carnale.
Quella di Spike Jonze, in fondo, è una programmatica (ri)cognizione della grammatica dei sentimenti: impossibile per sua stessa natura e definizione, cervellotica nelle intenzioni e paranoica - fino al delirio, fino all'esasperata attenzione che chiede allo spettatore - per l'intensità morbosa con cui scruta nei limacciosi spazi interstiziali, laddove trovano rifugio (rifuggendo i versanti oscuri e dolorosi della realtà) il non detto e il soffocato/frenetico agire che soggiace alla paura di essere (soli) e all'innato desiderio di avere (un senso).
[un senso fanta(reali)stico l'hanno: il mostruoso Joaquin Phoenix, corpo e faccione (iper)sensibili dalle mille e più sfumature, che esprime un pathos che disarma, disorienta - pare il soggetto di un vivissimo ritratto naturalista in movimento, ma in carne ossa e pixel; e la presenza "materica" pesantissima di una Scarlett Johansson voce e corpo - virtuale, immaginario e immaginato, che attiene al Sogno - in grado di racchiudere in sé e spiegare le ali dell'insondabile mistero che governa l'irrazionale, imperscrutabile costellazione-affettività]
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