Regia di Spike Jonze vedi scheda film
“Lei” (Her, 2013) è il quarto lungometraggio dell’attore-regista del Maryland Spike Jonze.
La sfilza di voti mediamente alti (non tutti è vero) e il personaggio visto recentemente nell’ultimo Scorsese mi avevano dato una certa ‘sicurezza’ (non aspettativa) di andare a vedere un buon film e di qualità. Non so se è lecito contraddire il percorso ma a metà film (forse un po’ prima) due coppie sono uscite dalla sala e al che mi sono detto…devo resistere (perché fino a quel momento stavo cercando di capire una storia acoinvolgente) e alla fine ammetto di essere arrivato stanco, esausto e per nulla soddisfatto. Una noia mortale. E’ meglio dirlo senza parafrasi aggiunte o luoghi comuni di facile lettura a me il film non è piaciuto. Quello che vuole dire bastano una quindicina di minuti poi la ripetizione-masturbatoria è al di là dell’incomprensibilità umana e della eiucalazione perenne (impossibile) di parole, allucinazioni, consolazioni, amoreggiamenti e virtuosismi artificiali ripetitivi, assonnanti, petulanti e alquanto paranoici e invitanti all’uscita anticipata. Si resiste per gloria di un film che onestamente scontra neuronicamente con lo spettatore che spazientisce e vorrebbe dire parole poco gradevoli a dei dialoghi triti e quasi insensati. La voce e il suo computer, l’artificio e il suo uomo, l’amore inesistente incontra il nulla di un incintro che non può esserci.
Alla proiezione una quarantina di persone (da ottattenni a trentenni): al termine nessunoi si alzava (o quasi) perché il sonno vero e sacrosanto stava dando la testa a tutti. Il giudizio (va da se) è personale ma riguardarmi per la seconda volta tale pellicola è una prova forzata che in questo momento non oso pronunciare e tantomeno promettere (troppo duro può darsi ma perché uno deve farsi del male ad ogni costo…). Ciò che colpisce (in negativo) è il vuoto nel coinvolgimento ma se il fine (sensazione banalizzata e forviante) è proprio di dare atto di questo (ad oggi nei rapporti umani e quindi passiamo all’artificio onnivoro) si deve dire che non si può pretendere centoventimunti di immagini e di colloqui immaginari (e insignificanti per chi scrive) per una forma neuronica ‘media’ e una persona che vuole anche (e soprattutto) appassionarsi (forse è troppo dirlo…ma non si può escludere) ad una storia e alle sue forme anche distorte. Il cervello (e l’umanità interiore) non dedicava più di altro a un continuo interrogarsi sui dialoghi interattivi e pressocchè farraginosi del futile fruire. Ma va bene tutto (ma non credere agli orizzonti medi di coincidenze di vite e di scheletri umani-metallici che per carpire la società rabbuiata e penzolante di putrido odore riprende la città moderna dall’alto come aste di ossa illuminate privi di vita amorosa e arditamente piena di luci artificiali con la notte che copre tutto anche il sogno inutile di un essere abiologico). Va bene tutto ma non farsi girare le cervella cadenti (non funzionanti) di rotondità amene e di spudorate tremanti cellule cromosomiche che non incontreranno pià del nulla. Cellule vitali asfittiche e perdenti. Va bene tutto ma non dimenticare che uno sguardo lo spettatore deve darlo in controtendenza e almeno ‘partecipare’ in modo (anche distratto) miminimo ad una storia completamente Viziata (e in circolo vizioso). L’epilogo (se così si può chiamare) è quasi lampante da subito. Il gesto estremo finale potrebbe esserci? Il salire in alto fa pressuppore un qualcosa? Ma ciò che si vuole dare è solo la testa appoggiata di una lei (ma non la ‘lei’ di cui si parla e che trasmette) sulla spalla di lui (di spalle) ingigantendo il nulla e la soddisfazione di un foto-immagine per nulla convincente (dati i presupposti o quello che facevano presagire). Tutto pilotato e nulla succede. Amorfo ogni contesto come ogni corsa e ogni carrellata su quello che lei vuole vedere da ‘lontano’.
Theodore (Joaquin Phoenix) è un impiegato che scrive lettere personali (con affetto, amore e passione) soddisfacendo richieste tramite l’uso di internet. Vive solo (dopo aver lasciato la donna che aveva sposato) e la sua vita è monotona; quando arriva sul mercato un sistema ‘nuovo’ che riesce a far dialogare l’uomo con forme artificiali, trova in Samantha la sua compagnia immaginaria. Tutto in virtuale e in contatto continuo mentre Thodore svolge il rituale della sua vita quotidiana. Non riesce a staccarsene. Tutti girano in contatto continuo, Un silenzio e una solitudine che fa annoire tutti (e sprofondare il film in un contorcimento) fino ad un epilogo che t’aspetti. Belle immagini con una fotografia artificialmente metalluca ma il resto appare pesante, noioso e, sinceramente, tedioso.
Il film vorrebbe sorpassarre e inglobare il ‘blade-runner’ umano della tecnologia virtuale che fagocita ogni destino e il ruolo fantasma di voci ‘da ascolare’ ma non riesce ad andare oltre a quello che è evidente e scrutare una metastasi del futuro-presente della coppia uomo-donna appoggiatasi sopra l’alone fantasma di una città in scheletrita. I grattacieli salgono verso l’alto e gli ultimi destini di contatto sono in un alto oramai infranto. L’open è una finestra sul buio notturno parafrasando una comica (alla ‘busterkeaton’) post-modernizzata di due che ancora devono incamminarsi. Il sentiero è finito. Oltre c’è il vuoto. Come un film che di vuoto vuole regalarci ma con una pesantezza che è lecito non attendersi.
La prova di Joaquin Phoenix è anche credibile ma non c’è scena senza ‘lui’ e tutto viene reso con ‘virtualismo-posticciato’.
La regia di Spike Jonze regge quello che c’è da (non) dire.(ps.: premi Oscar e Golden Globe? Non posso che apprendere ma…).
Voto 4,5.
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