Regia di Ivan Vladimirov, Valeri Yordanov vedi scheda film
Il cinema bulgaro, questo sconosciuto. Poco presente nei circuiti internazionali, ma non certo per mancanza di merito. Una fucina di giovani talenti che, in questi ultimi anni, parlano, in modo diverso, dello stesso argomento. Un soggetto che è un desiderio comune, e racchiude il sentimento di una generazione. La fuga è il tema centrale di questo film, candidato ufficiale all’Oscar 2013, come lo era per il suo predecessore Tilt, e per il coevo Avé. I ragazzi dell’era postcomunista sognano di scappare, dalla famiglia, dalla città, dal Paese. Irresistibile è, in tutte e tre le storie, il richiamo dell’altrove, che è sempre una dimensione sconosciuta, e risulta adorabile forse proprio in virtù di questo suo carattere indefinito, nel quale tutte le aspirazioni possono trovare posto. I sei protagonisti del film di Ivan Vladimirov e Valeri Yordanov evadono da una metropoli in cui essi sono, in ogni circostanza, i più deboli, senza mezzi, senza voce, senza credibilità. Sono violenti per disperazione, e appassionati per natura. Sono energia primigenia che esplode contro le manifestazioni del potere. E che, per non dover combattere contro un nemico invincibile, decide di cercare nuovi spazi, aperti e poco affollati, nei quali potersi sfogare in maniera libera e creativa, pacifica ed esente da costrizioni. Una spiaggia semideserta, affacciata sul mare, è il luogo simbolo dell’assenza di limiti, perché nella sabbia non restano impresse le tracce della civiltà, né è possibile disegnare confini territoriali. La casa può essere una tenda, la società può essere improntata alla comunanza e alla promiscuità, nella quale si mescolano le culture, le amicizie, gli amori. Gli epigoni degli hippies, negli anni duemila, scelgono il naufragio fuori dall’universo delle nazioni, delle leggi, delle autorità che pretendono, sempre e comunque, la fetta più grande della torta. In quella vacanza ai margini del mondo, i giovani scherzano seguendo le acrobazie di una fantasia sfrenata, e intanto riflettono su se stessi, sui loro desideri e sui motivi delle loro frustrazioni. Si sentono derubati, in senso materiale e spirituale, e per reazione decidono di vivere di niente, rinunciando ad ogni appartenenza ideologica, sociale e religiosa, per essere nessuno in mezzo a tanti esseri tutti uguali. La superficie renosa sembra la raffigurazione metaforica del tumulto che crea uniformità, che scombina le carte senza produrre differenze. Così lotta e preghiera diventano un gioco, e si confondono con la danza e con il canto. Quel luogo si direbbe il paradiso, se non fosse che le regole arrivano anche lì, ad imporre divieti e a sfidare l’irriverenza con il rigore burocratico. Quel terreno appartiene alla giurisdizione di qualcuno, che esige l’ordine e non ammette gli accampamenti. La ribellione è interdetta, anche quando non gira, per le strade, brandendo le armi della rivoluzione. L’individuo è sempre soggetto a controllo. L’invisibilità è un’utopia irraggiungibile, perché la realtà è perennemente sorvegliata dall’alto. Quei ragazzi, per una volta, provano a riprenderla dal basso, standovi dentro, guardandola con gli stessi occhi di chi la vive. Impugnano una videocamera e si mettono a parlare, a porre domande, a dare risposte, riguardanti la loro povera esistenza, in un ambiente che non è disposto ad accogliere i loro sogni. Filmano la loro verità senza futuro, inconsistente e fragile come un telone steso tra i pali. Sono l’innocenza indifesa che, per volere degli altri, diventa assassina. Sono il diritto limpido e pulito di un rovescio sporcato dal cinismo. Sono i colpevoli per forza. Quelli che non possono correre, per trovare riparo, per quanto abbiano ai piedi le kecove, le scarpe da ginnastica che rendono agile il passo. Questo film è il ritratto corale di una prigionia moderna, tra le cui pareti le grida si fanno assordanti; possono, almeno per un po’, imitare gli schiamazzi di una gioia infantile, o gli strepiti della trasgressione adolescenziale. Ma finiscono comunque in una cadenza straziante e malefica, di chi va alla deriva con la coscienza posseduta da un diabolico disincanto.
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