Regia di Roberto Andò vedi scheda film
Chi ha paura della verità. Nessuno, forse. Ma tutti temono di doverla affrontare da soli. Fino al giorno in cui arriva l’uomo che ha l’ardire di dichiararla pubblicamente. Ed è certamente un pazzo. È allora che la gente decide di deporre, finalmente, l’abituale, deprimente pratica della ragione, per lanciarsi con passione nell’agone della follia, dove tutto è possibile, è il primo dovere è quello di sognare, a dispetto della prudenza dettata dal senso della catastrofe incombente. Tirarsi indietro, rinunciare, lamentarsi significa apporre un sigillo di lacrime ad una realtà debole, che diventa solida ed eterna soltanto nel momento in cui ci arrendiamo, scegliendo di non toccarla, di voltarle le spalle, per non averci più nulla a che fare. Anche la politica può partecipare, di fatto, a questa sconfitta autoindotta, facendo del pessimismo un’inutile arma che colpisce soltanto con volatili parole. Enrico Oliveri è il capo di un’opposizione che si comporta proprio in questo modo, attaccando il nemico verbalmente, facendo leva su minacce incombenti, derivanti dalla crisi e dalla disonestà degli avversari. Ma i suoi discorsi nulla demoliscono e nulla riparano. Sono fragili congetture edificate sul terreno sabbioso di una retorica intrisa di luoghi comuni. Sono prive della potenza del pensiero individuale, quello che, in virtù della sua genuinità, maturata in una lucida ed originale interpretazione del mondo, sarebbe veramente in grado di sorprendere e spiazzare. La battaglia si prepara nella solitudine, nel silenzio della meditazione, nella concentrazione dello studio. Giovanni, il filosofo gemello di Enrico, è un uomo che si è sempre tenuto nascosto. Ha scritto libri celandosi dietro uno pseudonimo, ed ha vissuto per anni in una clinica psichiatrica. Il buio è da sempre la sua dimensione ideale, quella che un tempo trovava nelle sale cinematografiche, da lui frequentate con grande passione. La luce, per lui, è sempre stata il bagliore astratto delle idee, che fendono l’oscurità con la tagliente chiarezza dell’invenzione geniale. Quando Enrico, in vista di una probabile disfatta elettorale, fugge all’estero senza lasciare tracce, Giovanni, che nell’aspetto è assolutamente identico, si sostituisce a lui. Al posto del fratello parla nei comizi, incontra giornalisti e presidenti, dirige il partito. Ed i sondaggi, improvvisamente, invertono la tendenza negativa e finiscono per darlo nettamente vincitore. Non è soltanto l’effetto delle citazioni dotte e del brillante eloquio di un uomo di lettere. È soprattutto il frutto della franchezza con cui l’homo novus, immune dai rugginosi meccanismi della contrattazione di palazzo, riversa sui suoi interlocutori il contenuto, fresco ed intatto, di un’intelligenza priva di inibizioni. Il suo modo di esprimersi sta a quello di Enrico come un verso poetico sta a una frase fatta. L’argomentazione è un’opera creativa, che trae la propria materia dalla vita vissuta e dall’evidenza delle cose concrete. È una scommessa che parte dai dati del problema, per costruire le sue coraggiose deduzioni. Enrico non ha fatto altro, nella sua carriera, che portare alla ribalta l’ombra della sua convenzionalità. È stato lo sbiadito alter ego di un suo sosia che l’ha sempre preceduto, nelle questioni sentimentali e intellettuali, fungendo da apripista alla sua mediocrità. Enrico non ha mai saputo amare o pensare come Giovanni, si è solo limitato a seguirne stancamente la scia. Senza la passione che sgorga dalla fiducia nella possibilità di cambiare, se stessi ed il mondo. Il fantoccio è tale solo nelle mani della propria vigliaccheria. È questa a comandarlo e condannarlo al fallimento. Roberto Andò, nel film tratto dal suo libro, affida ad uno splendido Toni Servillo il doppio ruolo di una marionetta che, ad un certo punto, mostra di essere supina nel corpo però indomabile nell’anima. Enrico e Giovanni sono le due facce dello stesso essere, l’impronta abbozzata e la formulazione compiuta di un concetto che nasce nel cuore, ed ha bisogno di spazio per poter decollare. Questo è il margine della libertà, che si estende fuori dalle stanze del potere, lontano dalle mura delle categorie prefabbricate. È il luogo in cui non c’è nessuno in attesa, pronto ad accoglierti, ad applaudirti o a contestarti. È il terreno che tu calchi per primo, senza preoccuparti che i tuoi passi siano anche gli ultimi.
“Lo spazio era angusto, semibuio. Senza accendere la luce, il segretario si piazzò davanti allo specchio sporco, che gli rimandò una traccia illeggibile, opaca. Si contemplò per qualche istante in quella sinopia, poi estrasse il telefonino e controllò velocemente i messaggi, fermandosi a leggerne uno, lapidario: “Ti aspetto”. “ (da: Il trono vuoto di Robertò Andò, Bompiani, 2012)
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