Regia di Ryan Coogler vedi scheda film
Non ha avuto molta fortuna qui in Italia Fruitvale Station, opera prima di Ryan Coogler ispirata alla vera storia di Oscar B. Grant, premiata da pubblico e giuria al Sundance Festival del 2013, oltre che a Cannes (Premio Avenir quale miglior debutto), ma da noi davvero poco considerata a partire dalla distribuzione e dall’esiguo numero di sale che hanno accettato di ospitarla, forse perché si è immaginato (a torto) che la tematica fosse troppo americana e quindi a noi distante, senza considerare invece che sia pure in differente maniera, i fatti qui narrati ci riguardano e molto da vicino. Ci siamo insomma dentro fino al collo a causa delle cruente e spesso letali prepotenze delle forze dell’ordine che invece di operare nel rispetto della legge, attaccano frontalmente, diventano schegge (deviate?) di intollerabili prevaricazioni, come testimoniano ampiamente non solo i fatti di Genova fra la scuola di Bolzaneto e la caserma Diaz, ma anche quelli più recenti dei casi Uva, Aldrovandi e Cucchi, tanto per citare i primi nomi che mi vengono alla memoria, tre tragiche “esecuzioni” di un ignobile accanimento persecutorio di analogo stampo “razzista” perpetrato nei confronti di ogni diversità, compreso quelle ideologiche o comportamentali oltre che di differente colore della pelle.
Sono tematiche scottanti che a me stanno particolarmente a cuore (mi sento addirittura e ancora persino parte in causa per una lontanissima esperienza personale ovviamente dalle conseguenze meno devastanti ma ugualmente dolorosa che ci ho messo molto tempo a superare) ed ho di conseguenza cercato di vederlo ad ogni costo questo film (che immaginavo potesse dare un interessante contributo alla discussione), inseguendolo nelle poche e frazionate proiezioni organizzate a Firenze dal meritorio Istituto Stensen. Devo però ammettere (con rammarico), che purtroppo la dedizione e l’impegno che ho messo per portare l’impresa a compimento, è stata ricompensata solo in parte, ed è un vero peccato, perché a mio avviso si è sprecata davvero un’occasione per una seria riflessione del problema (mi è sembrata insomma molto più attendibile e puntuale l’analisi tutta italiana fatta da Sollima con il suo A.C.A.B. – Al Cops Are Bastards nel 2012).
Il film di Coogler soffre infatti di alcuni difetti strutturali che ne minano fortemente il valore: parte in effetti molto bene, ma poi si stempera nel suo percorso centrale fino nei pressi della conclusione che precede di poco i titoli di coda, in un anonimato narrativo di maniera, che non mi ha convinto (né coinvolto) più di tanto, nonostante la prepotente forza della tematica. Resta ovviamente la drammaticità di un storia che a me però è risultata molto più interessante per ciò prova a dire (senza riuscirci fino in fondo) rispetto a come poi lo dice per davvero (parlo di “forma” e di “stile”) poiché pur confermandosi un inquietante apologo su quello che è il reale stato delle cose al di là dell’Oceano (situazione “razziale” compresa) cinematograficamente parlando, se si esclude l’apprezzabile taglio quasi documentaristico dell’inizio, nel prosieguo perde molto della sua efficacia (e soprattutto lascia troppo labili memorie nello spettatore).
L’indubbia serietà delle intenzioni c’è e si avverte, ma da sola non basta a far centrare davvero l’obiettivo, così come non è sufficiente la buona prova di quasi tutti gli interpreti a rendere giustizia alla tragedia. Per trasformare il tutto in una veemente denuncia, ci sarebbe infatti stato bisogno di ben altra sceneggiatura (qui interessata soprattutto a cercare di riempire la storia di quotidianità, il che toglie al racconto quei piccoli sprazzi di astrazione che avrebbero potuto contribuire a farlo lievitare), e soprattutto di una mano registica di più consumata esperienza, capace davvero di graffiare anziché disperdersi nelle troppe ovvietà di uno sviluppo narrativo episodico intriso di buoni propositi e sentimenti altrettanto edificanti: solida e professionale quanto si vuole, insomma, ma poco personale e incapace di osare fino in fondo, priva di guizzi e piena di quei “nei” tipici di molte opere prime sia pure indipendenti, ma a loro modo già perfettamente inserite nelle regole imposte dal mercato.
Penalizzato nella versione italiana da un titolo abbastanza fuorviante, in conclusione il film più che una denuncia vera e propria, mi sembra che si limiti ad essere principalmente una meditazione sugli errori del proprio passato, elaborata mettendo in scena l’ultima giornata del protagonista, trattato quasi come un “santino” (la “redenzione” del peccatore), che non presenta però alcuna apertura “critica” verso un possibile futuro (né prova ad affrontarne le problematicità) e che invece il “movimento” del treno così allusivamente metaforizzato, lasciava imamginare con le sue subliminali suggestioni (quel Prossima fermataimpropriamente aggiunto per l’Italia).
Come già accennato prima, la pellicola (meritoriamente prodotta da Forest Whitaker) rievoca un fatto realmente accaduto: l’uccisione per mano della polizia. di Oscar B. Grant, un ventiduenne di cui già nelle prime scene, vediamo gli ultimi tragici istanti durante il fermo presso la stazione di Fruitvale, nella Bay Area di Oakland, California.
Nelle mani di Coogler (anche sceneggiatore) il fatto diventa però soprattutto l’occasione per ricordare e ripercorrere la vita piena di incertezze e zeppa di debolezze, oltre che di altrettanti errori ed infrazioni, di questo giovane uomo già padre alla sua età di una bambina di 4 anni che, conscio delle sue nuove responsabilità, ha deciso di mettere un punto fermo alla sua esistenza voltando definitivamente pagina e cambiando finalmente prospettive e direzioni.
Gia da questi brevi accenni, si può dunque comprendere quanto sia grande il pericolo in agguato di farla diventare una storia edificante di riconciliazione tradita poi purtroppo dagli eventi, che finisce per cozzare con la cruda realtà degli avvenimenti. Un “buonismo” pernicioso e di maniera insomma che trasforma il caso emblematico di una immotivata e violenta prevaricazione, nel ritratto di un uomo dal passato burrascoso che il differente colore della pelle ha reso ancor più problematico, ma che nel presente ha finalmente messo la testa a posto (e mal glie ne incoglie a causa di un destino malvagio).
Era il 31 dicembre del 2008 quando si verificarono questi cruenti accadimenti che scossero profondamente (almeno nell’immediato) tutta l’America, anche se poi hanno lasciato davvero poche tracce nella memoria collettiva di un paese rimasto sostanzialmente razzista fino all’osso, nonostante il differente colore della pelle del suo presidente (basta pensare ai delitti che vengono consumati nell’indifferenza generale verso i messicani per colpa dell’erezione di quella palizzata che impedisce il libero transito verso un’ipotetica libertà, e l’ostinazione con cui ci si rifiuta di regolarizzare tutti coloro che pur immigrati clandestinamente, rappresentano comunque da tempo un’attiva e proficua forza lavorativa sottopagata, ricattata e “invisibile” che contribuisce con il proprio sudore a consolidare fattivamente una “ricchezza” della quale però non può godere).
Il film si concentra insomma soprattutto (e troppo) su quell’ultimo giorno che precede la prematura dipartita di Oscar, quello in cui l’uomo avverte il bisogno di cambiare (c’è anche un più che discutibilissimo “presentimento” che mi ha molto disturbato con il suo accentuato fatalismo che non aiuta a rendere credibile quel percorso riabilitativo scelto come elemento prioritario dal quale scaturisce la voglia di provare a diventare un figlio migliore, un padre e un partner più premuroso e sensibile, un uomo più disponibile e attento). Ci si sofferma insomma con troppa insistenza sui numerosi incontri “costruttivi” con i familiari, gli amici, i conoscenti e molti sconosciuti incrociati per caso, esposti più che con fatti utili alla vicenda, attraverso epidermiche “sensazioni” poco caratterizzanti di una giornata in tutto e per tutto uguale a tante altre, che lentamente e pigramente volge al termine, e dove ogni cosa sembra (finalmente) andare per il verso giusto.
Al di là dell’encomiabile importanza della motivazione politica e sociale di voler rendere palese questa storia, la pellicola non offre però altri spazi di interesse: tutto scorre senza impennate o picchi (ripeto: la messa in scena è professionale, ma piatta), si stempera in una narrazione monocorde e risaputa che ha solo qualche piccolo sprazzo di emotività nel raffigurare il deserto umano che sembra circondare il ragazzo, ma che ha il difetto di spingere lo spettatore più che verso una vera e propria presa di coscienza, a rammaricarsi semmai per l’amara ineluttabilità di un destino beffardo, cinico e baro, inevitabile conseguenza di un mondo ormai impazzito, dove le reazioni dei singoli (indipendentemente dalle motivazioni che le originano) finiscono per influenzare pesantemente e loro malgrado, la vita di un’intera società, il che fa sì che se di condanna si parla (e indubbiamente c’è, per lo meno nelle intenzioni generali) questa si disperde e si annacqua dentro a una preoccupante serie di banalità che non hanno mai la forza dirompente di un “j’accuse” vero e proprio, se non nella vigorosa vitalità sconvolgente delle immagini racchiuse e rimandate dai video realizzati con i telefonini in quella terribile notte “senza scampo” postati su Youtube, che sono davvero gli unici momenti che riescono a rappresentare con la prepotenza un po’ naïve della documentazione in presa diretta, la sconcertante brutalità degli avvenimenti, e con questa, la concitazione dei momenti che precedono e generano l’esplosione di quella violenza scomposta, l’incomprensibile atteggiamento prepotente dei poliziotti che invece di ascoltarne le ragioni, preferiscono attaccare con inaudita e virulenta aggressività quelli che considera a prescindere, il nemico da abbattere, semplicemente per il differente colore della pelle, in una folle escalation prevaricante che si conclude con quel secco colpo mortale sparato da una pistola. Ecco: quelle rimangono le uniche sequenze che veramente ottundono la mente e sconcertano lo spettatore, quasi tutte relegate all’inizio del racconto, contrappuntate dai materiali di repertorio filmati veramente dai cellulari dei testimoni presenti sulla scena, quasi che il regista temesse di insisterci troppo sopra (o di riproporne il senso senza averne individuato una ulteriore, inedita chiave di lettura), ed è un gravissimo errore poiché le fasi successive finiscono per infiacchirne la portata. Non si capisce infatti perché con un avvio così stupefacente in cui Coogler è stato capace di organizzare con eccellente maestria tutto il materiale a disposizione mettendo in piedi una regia di stampo quasi documentaristico che diventa davvero palpitante e che in questa prima parte si potrebbe definire “di pedinamento”, sia poi riuscito ad annegare il proprio talento nell’ovvietà rendendo poco realisti e un tantino stereotipati persino i personaggi (nonostante l’ottima prova di Michael B. Jordan che si cala nel corpo del protagonista riempiendolo di giuste e sfaccettate sfumature), evitando poi di avventurarsi in una seria ma necessaria indagine sulle motivazioni di un omicidio sostanzialmente gratuito e di evidente stampo “razzista”, o anche più semplicemente di impegnarsi in una doverosa analisi delle motivazioni che sono la base di quello scatenarsi (anche immotivato) dell’aggressività delle persone, per concentrarsi invece quasi esclusivamente sulla figura un po’ miticizzata della vittima.
Dell’intensa prova del protagonista, ho già parlato. In un cast tutto sommato molto omogeneo, mi è sembrata invece troppo manierata la resa di un Kevin Durand dalla mascella volitiva, nel solito ruolo del poliziotto esaltato e fuori controllo, la cui presenza acuisce fortemente il dubbio di un progetto dalla doppia anima, fatto di finzione, ma spacciato per ricostruzione puntigliosa della realtà.
Un film insomma che avrebbe dovuto poter contare per lo meno su una regia più coesa e meno “invisibile” di questa, che dopo l’exploit dell’inizio e una scialba progressione centrale piena di luoghi comuni, si sbilancia persino verso il patetismo (le lacrime legittime ma ricattatorie della madre) e dove la commozione finisce per prendere il posto dell’indignazione a risollevarsi. Prova in effetti a rianimarsi di nuovo nel finale (ma senza riuscire a farlo più di tanto), quando la finzione lascia di nuovo il posto alle immagini mute ma struggenti della realtà.
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