Regia di Francesca Gregorini vedi scheda film
Emanuel ha un nome da uomo ma non se ne cura, anzi lo porta tatuato su un avambraccio, perché è stato l'unica scelta che la madre (che aveva pronto il fiocco blu) abbia potuto compiere nei suoi confronti prima di morire, uccisa dal parto.
Ai propri occhi, Emanuel è un'assassina senza movente, e la pena che sta scontando è una vita abusiva.
Cresciuta dal solo padre Dennis, incapace di alleggerirla di tale fardello tanto da acconsentire ancora, ad un passo dalla sua maggiore età, alla macabra, ciclica richiesta di aver rinfrescata la memoria sui fatti inerenti quel giorno lontano ormai quasi diciott'anni, Emanuel dà il peggio del proprio carattere chiuso e scontroso con la nuova compagna di lui, Janice, la quale, gravata a sua volta dalla propria inabilità a procreare, cerca goffamente di instaurare con lei un dialogo, scontrandosi contro un gelo emotivo che si sostanzia in frasi provocatorie e battute al veleno.
Il resto della sua giornata lo passa tra il lavoro in farmacia, dove si impegna a spronare il collega Arthur a vincere la propria timidezza e cercare nuove amicizie, ed il percorso da e verso lo stesso, durante il quale conosce Claude, un ragazzo che prende lo stesso treno tutti i giorni agli stessi orari e che cattura il suo interesse.
Quando nella casa accanto alla propria si stabilisce Linda, una madre single che cattura la sua attenzione per la somiglianza con le foto della propria defunta, Emanuel coglie al volo l'opportunità di mettersi al suo servizio come baby sitter, cercando per interposta persona l'affetto materno che le è sempre mancato, ma entrando in contatto con i segreti del suo universo fragile ed oscuro e avvertendo il dovere di difenderli dalle intrusioni esterne.
The truth about Emanuel, presentato originariamente al Sundance 2013 con un titolo diverso (il più pertinente Emanuel and the truth about fishes), è il secondo film dell'italo-statunitense Francesca Gregorini, il primo girato in solitaria dopo l'esordio condiviso con Tatiana von Furstenberg (Tanner Hall) nel 2009.
Assumendo il punto di vista dell'ennesima giovane tormentata inserita nel contesto dell'ennesima famiglia disfunzionale, la regista scrive (con Sarah Thorp) e dirige mostrandosi volenterosa nella continua ricerca dell'atmosfera ma poco attenta all'attendibilità delle singole scene e della storia nel suo complesso.
Se le cose sembrano funzionare per i primi venti minuti, quando l'attenzione è pressoché monopolizzata dal personaggio della protagonista, una Kaye Scodelario assolutamente convincente, i problemi arrivano quando il colpo di scena che dovrebbe far da detonatore al racconto manca il bersaglio ed ottiene l'effetto esattamente contrario, facendo emergere uno ad uno i difetti di uno script che definisce in maniera grossolana e superficiale tutti gli altri caratteri, fallendo in particolar modo quello di Linda, prigioniera di un dolore speculare a quello di Emanuel ma (a prescindere dai limiti della sua interprete, Jessica Biel) del tutto priva dello spessore di cui sulla carta avrebbe bisogno. Di conseguenza il dramma psicologico che stava correndo muta, assumendo le fattezze di un mezzo thriller svaporato in cui gli accadimenti (cadenzati da interludi onirico-acquatici utili più che altro a giustificare il titolo originale) oscillano tra la scarsa plausibilità e l'aperta ridicolaggine, con eccessi di didascalismo e amenità in sequenza, fino alla forzatura di un finale che con altri presupposti sarebbe stato catartico e poetico, ma che qui risulta nulla più che pesantemente velleitario.
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