Regia di Nicola Deorsola vedi scheda film
I due mesi che precedono il periodo natalizio sono diventati il terminale di una distribuzione a dir poco impazzita, capace di concentrare in un lasso di tempo relativamente breve una quantità di opere così elevata da rischiare la congestione. Stipati a forza nelle sale i film danno vita ad un calderone senza capo ne coda, in cui il prodotto è messo in vendita con scarsa sensibilità delle sue caratteristiche, e senza alcuna salvaguardia nei confronti di quei titoli che sprovvisti di un' adeguata campagna promozionale, sono destinate a fugaci apparizioni. Una condizione che accomuna soprattutto il cinema italiano prodotto al di fuori del duopolio Rai/Mediaset, e quindi un film come quello dell'esordiente Nicola Deorsola, "Vorrei vederti ballare" commissionato dalla camera di commercio di Cosenza per sponsorizzare il turismo di una regione tra le meno frequentate dagli autori nostrani.
Il paesaggio calabrese, con le sue bellezze naturali, è dunque chiamato a fare da sfondo alla storia di Martino ed Ilaria, figli incompresi di genitori che in qualche modo riversano su di loro le frustrazioni di matrimoni distrutti dalle circostanze della vita, o logorati da ripetuta disaffezione. Una condizione comune destinata ad incontrarsi attraverso lo stratagemma messo in piedi da Martino che, innamoratosi della ragazza, decide di conoscerla sostituendosi al padre piscologo nelle sedute terapeutiche a cui Ilaria si sottopone per curare i problemi di anoressia. Tra equivoci ed infingimenti lo stratagemma funziona fino a quando il caso farà venire a galla la verità. Da quel momento tutto diventerà tremendamente complicato.
Se da una parte "Vorrei vederti ballare" si muove nel territorio di un cinema che ha destabilizzato l'irresponsabilità giovanile riducendola ad un libro di Liala, e parliamo tanto per intenderci di un film seminale come "Tre metri sopra al cielo" (2004) e dei vari cloni che sotto mentite spoglie hanno cercato di imitarne gli stilemi e soprattutto il successo, d'altro canto non si può fare a meno di notare il tentativo di personalizzare il canovaccio con una riflessione sulla settima arte capace di abbracciare sia gli aspetti puramente teorici, sia quelli squisitamente cinefili. Istanza di cui il film si fa portatore nell'attitudine di Martino di difendersi da un mondo che non lo capisce - appassionato di tartarughe, vorrebbe fare il biologo ma il padre in maniera pragmatica lo costringe a studiare psicologia - diventandone dapprima un osservatore distante, e successivamente prendendovi parte sotto mentite spoglie. Nel primo caso è l'atto del "guardare" a fare da riferimento, con una serie di passaggi sufficientemente indicativi a rivelarne l'intento. Dapprima è l'occhio di Martino a diventare strumento di una conoscenza indiretta ma necessaria a tenere vivo il desiderio, presente nella volontà di spiare la ragazza durante gli esercizi di danza che la stessa esegue di fronte alla finestra della propria abitazione. Successivamente sono due sequenze ambientate in una sala cinematografica a chiamare in causa nuovamente il cinema nella sua essenza, ed insieme a delineare la dimensione emotiva della vicenda: la prima caratterizzata da una profonda solitudine, ci mostra Martino immerso nella proiezione, attraverso una ripresa in soggettiva effettuata dal punto di vista dello schermo; nella seconda invece, più o meno dello stesso tenore, il ragazzo non è più solo ma segue il film insieme ad Ilaria. Se nel primo caso la scelta di una doppia osservazione, quella dell'oggetto osservato ed insieme osservante, costruisce un mondo chiuso in cui la coincidenza tra arte/schermo e vita/Martino corrisponde ad un ideale amoroso ancora lungi dall'essere reale, nella seconda, che arriva quando i due ragazzi hanno già iniziato a frequentarsi, trasformando di fatto quello stato ideale in qualcosa di concreto, lo scarto emotivo è reso da una ripresa più convenzionale, in cui lo sguardo del protagonista, finalmente disgiunto dalla finzione dello schermo, torna a vivere di vita propria, attraverso una composizione del quadro per la prima volta occupato dalle immagini del film ("L'imbalsamatore" di Matteo Garrone) che i ragazzi stanno guardando. Ed è ancora il cinema, questa volta declinato nelle sue capacità mimetiche a farla da padrone, con il protagonista che nella parte centrale della storia finge di essere un altro per riuscire a conquistare l'oggetto del suo desiderio, assolvendo in questo modo la funzione di meccanismo narrativo necessario a far evolvere la storia, ed insieme, ma su un altro livello, a decostruire il mestiere dell'attore attraverso i diversi aggiustamenti che Martino mette in atto per supplire agli imprevisti di quel "lavoro". Una passione cinematografica tout court che Nicola Deorsola trasmette anche nella cura delle scenografie, traboccanti di poster cinematografici, nei dettagli di un acconciatura, che nel caso della cassiera del cinema interpretata da Paola Barale fa il verso a Marylin, nelle citazioni di frasi passate agli annali, come quella pronunciata da Natalie Baye in "Effetto notte"(1973) "Io mollerei un uomo per un film, ma non riuscirei mai a mollare un film per un uomo". E' quindi un peccato che "Vorrei vederti ballare" debba scontare certe ingenuità presenti nell'inserimento di intermezzi comici, come quelli che accompagnano il personaggio intepretato da Gian Marco Tognazzi che, nella performance sopra le righe dell'attore romano, poco si addicono alla drammaticità del contesto. Allo stesso modo è impossibile non sentire la programmaticità di certi snodi emotivi che, nell'intento di far progredire la vicenda finiscono per consegnarla a cambiamenti un pò troppo frettolosi. Luci ed ombre di un esordio comunque apprezzabile, e supportato da un cast di valore, in cui si distingue la prova nervosa e sofferta di Chiara Chiti, già vista al cinema nel primo film di Matteo Rovere (Gioco da ragazze,1981) e qui felicemente riscoperta.
(pubblicata su ondacinema.it)
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