Regia di Ray Manzarek vedi scheda film
Non avendo acidi sottomano o altre sostanze psichedeliche e non essendo più gli anni sessanta, mi sono seduto sulla poltrona nera del cinema con una brooklin ipa bella carica di luppolina in mano e ho aspettato il buio della sala prima di stapparla. Mi sembrava giusto alterare le mie percezioni in attesa che Jim cominciasse a cantare e i Doors a suonare. Prima dell’inizio del concerto i Doors hanno raccontato qualche storiella su quella serata e anche che Jim, molto probabilmente, fosse fatto di acido. Le immagini gli danno ragione. Jim sembra proprio nel bel mezzo di un trip, un buon trip, dove trasforma continuamente la musica in visione interiore, il proprio subconscio in musica, in una perfetta armonia con il pubblico e il resto del gruppo. E sembra proprio di essere lì. Il suono avvolgente, i minimi rumori del pubblico, mai disturbanti, il palco spoglio, con il muro di casse e loro quattro sul palco. Jim che si muove sinuoso, a piccoli passi, calmo, consapevole eppure distante, in bilico tra due realtà o forse di più. Immerso nelle canzoni, mondi sonori, sciamanica presenza che trasporta gli altri oltre le barriere delle normali percezioni. L’essenza di un concerto era quindi l’esperienza sinestetica, amplificata, in quell’epoca, dagli allucinogeni. Una serie di connessioni reali, tra corpo, mente, suoni, immagini, universo interiore ed esteriore, la soft machine in tutta la sua bellezza. Jim è un catalizzatore di energie, sublima nella propria performance lo spirito dionisiaco, creando un senso di comunione che magicamente arriva anche allo spettatore seduto nella sala cinematografica. L’aura di Morrison splende attraverso lo schermo, sono passati più di quaranta anni e nemmeno un secondo.
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