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Anni felici

Regia di Daniele Luchetti vedi scheda film

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La recensione su Anni felici

di OGM
8 stelle

Quanto è difficile la libertà. Il vero nemico non sono le leggi oppressive o i vincoli della tradizione. L’avversario più temibile siamo noi stessi, con la nostra natura fragile, e la nostra paura della verità. Là fuori, lo spazio è troppo aperto per sentirci sicuri. Tanto che preferiamo rimanere all’interno delle nostre familiari pareti, e trattenervi gli altri, quelli che amiamo, quelli che abbiamo bisogno di avere vicino. Alla metà degli anni settanta, Serena e Guido sono una coppia come tante: due trentenni sposati, con due bambini, Dario e Paolo. Frequentano regolarmente le rispettive famiglie d’origine, e, per il resto, conducono una vita regolare e sostanzialmente borghese, nel cuore di una Roma popolare ma opaca. Il problema è che non vogliono smettere di sognare. Lui è un artista d’avanguardia, che ancora aspetta il suo momento, quello in cui sarà finalmente riconosciuto ed arriverà a sfondare. Ci crede fermamente, perché la sua inquietudine è radicata nella fede in una ribellione necessaria, dettata dalla storia, e richiesta a gran voce dall’umanità. Serena, dal canto suo, spinta dall’ammirazione per il marito, si lascia contagiare da quel desiderio di evasione dalla norma, di sperimentazione di nuove possibilità di esprimere le proprie emozioni, e, durante la vacanza trascorsa in Francia insieme ad un gruppo di femministe, intraprende una relazione con un’altra donna, mettendo in crisi il proprio matrimonio. Nelle esistenze dei protagonisti,  il nuovo ha  un effetto dirompente e disgregante, che tutto distrugge e nulla costruisce, se non un’illusione di creativa autonomia. Stare insieme, badare l’uno all’altro, è un impegno affettivo che la forza centrifuga della realizzazione personale può solo inficiare. Eppure Serena e Guido continuano a provarci, a tentare di conciliare i termini antitetici della fedeltà e della trasgressione. Il tutto avviene sotto lo sguardo sgomento di Dario, il figlio maggiore, che non capisce e, soprattutto, si ritiene trascurato, mentre gli sforzi dei suoi genitori sono interamente concentrati su quella avventurosa missione ideologico-sentimentale.  Il film di Daniele Luchetti ci riporta ad un’epoca che è solitamente ricordata come rivoluzionaria, nonché piena di romantici slanci indirizzati ad un futuro migliore, ma, che in realtà, è stata un periodo  di stentata e combattuta transizione, irrimediabilmente invischiata nel conflitto col passato, e frenata dal timore di compiere un salto nel buio. I protagonisti non sanno osare, perché, anche quando si rivelano capaci di spingersi oltre i limiti, perdono molto più di quanto riescano a guadagnare. Per loro, andare fino in fondo significa sbattere dolorosamente contro  un muro, oppure precipitare nel nulla, e dunque nessuna scelta potrà mai essere radicale, assoluta, definitiva. La prospettiva infantile adottata dall’autore – che, autobiograficamente, si immedesima nella figura del piccolo Dario – sovrappone, alla rivisitazione di quella realtà, non troppo lontana dai giorni nostri, della quale credevamo di sapere tutto, il filtro di uno stupore primitivo e ingenuo: ai suoi occhi,  l’anticonformismo  si trasforma in una banale deriva egoistica, alla quale l’individualismo senza regole aggiunge un pizzico di triste delirio. La sensazione di spensieratezza, momentaneamente indotta dalla voglia di rottura, viene erroneamente scambiata per la felicità che accompagna l’alba di un’era di pace, in cui non c’è motivo di giudicarsi e odiarsi, perché tutto è lecito, e tutto è contestabile senza conseguenze. Tuttavia, niente può sospendere le nostre inibizioni e debolezze, il carattere relativo della nostra prospettiva, e il nostro innato desiderio di calore e protezione. Siamo creature indifese, benché aspiranti eroi. In un lampo, vorremmo cambiare il mondo, mentre la natura ci tiene inchiodati alla millenaria, tormentata storia della nostra specie. 

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