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Anni felici

Regia di Daniele Luchetti vedi scheda film

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La recensione su Anni felici

di scapigliato
8 stelle

La famiglia secondo Luchetti. Oppure Anni Felici è un film sulla fisicità dei sentimenti e delle relazioni? Sicuramente la famiglia è la tematizzazione principale dell’intero plot che incide su ogni svolta narrativa e ne determina il gusto, il sapore, le scelte registiche.

Raccontando di una giovane famiglia nella Roma del 1974, quando le “donne della famiglia Cervi votano NO” e i bambini ridono guardando la linea di Cavandoli con il suo irresistibile linguaggio, Luchetti porta in scena i ricordi della sua infanzia legati a quell’estate, condendo la verità con invenzioni narrative e contribuendo così a re-immaginare la realtà storica attraverso il mezzo creativo.

Sperimentale nella scelta dei formati di ripresa – tra cui anche il super8 – e nell’audacia di certe visionarietà impressioniste come il viaggio notturno in macchina con l’amica gallerista, Anni Felici ha la grana grossa del bel cinema italiano che poco si vede – e guarda caso titoli recenti di questo bel cinema sono firmati dallo stesso Luchetti o dal aequus Virzì. Il limite sta tutto nella tematica principale, la famiglia. L’Italia fatica a svincolarsi dal proprio vecchio immaginario fatto di strutture mentali cattoliche e da consuetudini canoniche e popolaresche. Sia chiaro, non è un demerito, ma solo un limite.

Anni Felici è una riuscitissima action painting, sia nel gesto che nel risultato finale, che punta tutto sull’evocazione del carattere impressionista del cinema per raccontare per immagini i sentimenti e le emozioni non solo del di lui alter ego protagonista, ma di ogni singolo spettatore che rivive o sogna la propria vita confusa e felice. Il gioco gli riesce grazie all’uso abbondante, quasi iperbolico, dei primi piani, mai risicati nel suo cinema, che qui trovano comunque il loro manifesto estetico più completo e forse tutta la cinematografia recente di Luchetti trova in Anni Felici il proprio manifesto estetico e programmatico. Difatti, tematiche, tipologie di personaggio, contestualizzazione storica e linguaggio cinematografico – primi piani, camera a mano, formati di ripresa – vengono giustamente e legittimamente abusati, rindondando di impressionismo tutto il racconto per immagini.

Ma se il film fosse solo “una” “storia”, una qualsiasi e soltanto una semplice storia, allora non avrebbe trattato tematiche complementari, soprattutto quelle di diretta invenzione degli sceneggiatori Rulli & Petraglia, che portano il film su altri livelli. Adulteri, nudi integrali femminili, lesbismo, primi giochetti erotici, il ruolo dell’arte, il tema del viaggio e della fuga agreste – cosa sia inventato e cosa no, non lo sappiamo – sono i motivi satellitari che ruotano intorno al nucleo tematico principale e che portano il film a superare se stesso, oltrepassando la soglia del tema eletto e confezionando così una pellicola che sa parlare di altro e lo fa compenetrando la parte con il tutto.

Filo rosso ben visibile che unisce tra loro le sottotematiche e i motivi vari, è il corpo. Spesso e volentieri nudo – peccato per il pudore di Kim Rossi Stuart che poteva completare l’opera. Dapprima è oggetto e desiderio di oggettivazione attraverso la pratica artistica che fa dell’adulterio una sua estensione, una conferma dell’infallibilità del genio creativo e della sua ruspante hybris. Poi diventa vera e propria trasgressione, passando attraverso l’esperienza lesbica della madre interpretata da Micaela Ramazzotti – non bella e seducente come in La Prima Cosa Bella (2009), ma molto più generosa e rovente come piace a noi che siamo stati folgorati sulla via di Tutta la Vita Davanti (2008) – e autoaffermandosi come corpo libero e indipendente fino a trasfigurarsi in opera d’arte, chiudendo un cerchio quasi biologico.

Il corpo, e la sua istintualità, come unica nostra verità. Prima di qualsiasi cosa siamo, siamo degli uomini e delle donne con un corpo e i suoi istinti naturali. Prima dell’artista, c’è l’uomo. Prima della donna di casa, c’è la donna. Prima di un ingegnere, di un medico, di un professore e prima di un prete, c’è un uomo. Gambe, braccia, torso, spalle, piedi, mani, naso, bocca, culo e pene. E l’equivalente femminile con le dovute e fortunate differenze.

Prima c’è il corpo. E non è un caso che il regista si soffermi sempre così a lungo in dettagli morbosi sul corpo acerbo del suo giovane alter ego, perché è un corpo in crescendo. Un’acerbità puberale che si trasforma e cresce nel suo impatto con la società e con altri corpi, come quelli altrettanto acerbi delle ragazzine francesi con cui gioca al mare – natura, sole, corpi mezzi nudi, i primi baci nell’atmosfera surreale di quei giochi dove si mimano i grandi e si esorcizza la morte. E non è un caso che la mdp insista sul bacio tra madre e figlio nel fondo marino, anche se giustificato dalla situazione di estremo soccorso, tant’è che lo sguardo giocondo del protagonista conferma il “pulviscolo erotico” in cui aleggia la storia con i suoi personaggi.

Il corpo quindi ancora una volta al centro dell’ossessione scopica del cinema. Ossessione nata fin dalle origini, magari anche inconsapevolmente – come giudicare se no le famose decapitazioni di Méliès se non come l’irresistibile gioco alla modifica del corpo mettendo questo così al centro della narrazione? – conferma le tesi secondo cui il corpo può più dell’anima, nel bene e nel male. E nell’assenza di corpi ecco che ogni cosa, un oggetto inanimato, un pensiero, un’emozione, una paura, una gioia o una preoccupazione possono diventare corpo. La fisicazione del pensiero, a cui siamo connaturati, porta a rimettere al centro del discorso la materia, primo fra tutti il corpo. Persino il concetto di assenza diventa corpo sul finale e si materializza innescando l’ennesimo erotismo.

Anni Felici diventa, all’epoca della sua uscita, la summa del cinema recente luchettiano, avanzando autorialità e palesandole senza vergogna. Pellicola che riconosce i propri limiti, primo tra tutti il manierismo italico dei drammi italiani, tutti seduzione/passione/tragedia, sa anche permettersi una sana e ironica autocritica. Infatti, il fatalismo dietro il quale il protagonista sbircia la vita dei suoi genitori e i suoi primi ricordi sensibili, compresa l’iniziazione sessuale che coincide con quella artista di regista, è il fatalismo del piccolo mondo borghese cattolico italiano su cui inveisce Luchetti stesso al grido “il borghese non è arte”. Quoto.

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