Regia di Javier Andrade vedi scheda film
La decadenza. Una faccenda così così. Passata di moda. Ma, alla fine, sempre vincente.
Non parliamone. Scriviamoci sopra una storia. Un racconto fatto di cose non dette. Grattiamo via la superficie patinata dell’apparenza. Scaviamo con le dita fino a toccare il ruvido tessuto che sta sotto il tappeto, teso e logoro come un intreccio di corde rovinate dal tempo. L’estetica arruffata, sfilacciata di quest’opera può essere una nuova forma di poesia, o forse una sfida al ribasso lanciata al realismo: la verità sgradevole può anche essere brutta e banale, senza l’enfasi della crudeltà o della follia, né lo squallore propriamente inteso, che ha sempre il sapore forte del degrado. Qui la scena è invece dominata da un abbandono non completamente riuscito, un lasciarsi andare incompiuto, fermato a metà strada dalla svogliatezza. Così la trama della perdizione rimane un groviglio alla buona, mischiato alla mediocrità di chi non crede fino in fondo alla seduzione del male. L’ambiente stesso appare indeciso tra una borghesia corrotta e decadente e la piccola malavita di periferia: la narrazione va e viene tra due estremi che sono solo aspiranti tali, volutamente intiepiditi da un tocco autoriale che applica ad ogni gesto un pizzico di beffardo disincanto. Così la gioventù di Luis Alfredo non è del tutto ribelle, né eccessiva, e stenta a bruciarsi. Mentre Paco, suo fratello maggiore, consuma inutilmente le sue smanie trasgressive in una routine del vizio che sa di noia, di vecchiaia, di stanchezza. In questo sfocato contesto urbano – il cui colore latino è ormai sbiadito per mancanza di fantasia - il classico cocktail di droga, sesso, rock & roll diventa un modo antiquato di passare il tempo, di fare onore alla propria casta, di perpetuare la fama negativa del clan. Questo universo sudamericano non ha più nulla da ostentare, tanto meno da denunciare: è finita la magia dell’aberrazione, del mondo storto che tanto assomigliava all’immagine deformata di un gioco di specchi. Il mito è crollato, e ne restano solo le briciole, colorate sì, come coriandoli, ma ugualmente leggere e volatili. Per un po’ spiace, davanti a questo film, non avere nulla di concreto su cui posare la mano, nulla che non si sfaldi subito in mezzo alle dita. Lo sgretolio diviene così una sensazione costante, che, alla lunga, si impone come un ritmo di sottofondo, la colonna sonora di un disfacimento che insiste nel ripetersi, percorrendo gli alti e bassi di chi continua a far finta di voler rimontare la china. Solo il finale è una ventata di aria fresca: il circolo vizioso si spezza, e tutto ritorna alla normalità. Ossia: a quell’assurdo che grida vendetta, a quel cinismo svettante che ci restituisce, in modo perfetto, l’usuale tragicommedia del potere che vince su tutto e seppellisce ogni dubbio.
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