Regia di Stathis Athanasiou vedi scheda film
In amore non si è mai in due. La coppia è solo un temporaneo nodo in un vorticoso intreccio che si estende da un capo all’altro del globo. Da Atene a Barcellona. Dall’Olimpo degli dei alla terra degli uomini. Il mito è l’infinito racconto della metamorfosi, dell’unione che si scioglie in guerra, della gioia dell’epopea che finisce con le lacrime della tragedia. Apollo, Afrodite, Calliope, Melpomene, Ettore, Nerea, Fedra, Ippolito, Arianna: sono i nomi dei personaggi di una partita giocata ad anime scoperte, dove tutto si esprime apertamente, dal sentimento al dolore, dal desiderio alla follia. Il sogno individuale è fatto d’arte, di cinema, fotografia o cucina, ma lo slancio affettivo è un bozzetto incompiuto, che rimane sospeso a mezz’aria, a fare da segnaposto al senso di impotenza, alla remissività nei confronti di un destino che dal nulla crea e distrugge. All’illusione segue la rinuncia, che blocca i progetti di chi avrebbe tanta sete di eternità. Questo racconto è scritto come allo specchio, lasciando che i pensieri si riflettano nelle parole, ed i diversi ruoli si guardino negli occhi per passarsi la mano, accettando ognuno di avere come alter ego il proprio rivale. Vincitori e vinti, tutti sono per un attimo conquistatori, e subito dopo si scoprono abbandonati e soli. Tutti sbagliano, chi spera e chi dispera, chi parte e chi resta, chi si offre e chi si nega, perché la ruota comunque non smette di girare, lasciando tutti, infine, a mani vuote. La storia non potrebbe andare avanti se agli eventi si potesse applicare il marchio della perpetuità: il provvisorio è vita che respira attraverso le proprie ferite aperte, e che sussurra dolcemente per l’affanno della sofferenza. Questo film mostra una modernità cinta d’assedio da antiche minacce, quelle che hanno tracciato i percorsi leggendari dell’epica classica: la passione, la gelosia, il tradimento. In un mondo cosmopolita, in cui le distanze si annullano, le odissee sono viaggi compiuti in maniera ardita con la mente, vagheggiando il successo internazionale, o in maniera faticosa con il corpo, emigrando in cerca di un futuro più umano. Ma né il raggiungimento del traguardo, né il suo accantonamento risolvono i perché su cui si fonda il mistero della felicità. I protagonisti di questo colossale agone, in cui la posta in palio è la fortuna di sentirsi amati, sono figure in primo piano che non riescono però a riempire lo schermo: i loro volti sembrano anonimi ritratti di sbigottimento, di curiosità rimasta amaramente insoddisfatta. Inutile formulare un responso sulla loro sorte di cuori solitari o solo momentaneamente accompagnati: quegli uomini e quelle donne sono infatti soltanto punti di transito di un flusso di forze attrattive e repulsive, che disegna i settori di un campo di battaglia dalla geografia mutevole. Lo spirito di Dos è uno sfumato inquieto, il suo stile è un minimalismo che freme per farsi melodramma: ma alla scena madre viene subito rubato il quadro, che corre via per posarsi su un altro fugace capitolo di quell’inconcludente e conturbante divenire. Questa è l’idea, sottratta alle macerie della realtà, e ricomposta nel film di Stathis Athanasiou con la giusta sofferenza d’autore. Nel puzzle è impossibile vederci chiaro: però il tutto, sia pur attraverso le fratture dell’immagine, ribadisce, caparbio, la sua fatale ed instancabile continuità.
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