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Nebraska

Regia di Alexander Payne vedi scheda film

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La recensione su Nebraska

di Peppe Comune
8 stelle

Woody Grant (Bruce Dern) è un anziano signore, burbero ed ancora dedito all’alcool. Un giorno riceve un biglietto con il quale viene informato di essere il vincitore di un concorso a premi  indetto da un’importante rivista letteraria e che dovrà recarsi fino a Lincoln, nel Nebraska, per ritirare direttamente il premio in danaro che corrisponde ad un milione di dollari. Nonostante la moglie Kate (June Squibb) e i figli, David (Will Forte) e Ross (Bob Odenkirk) cerchino di fargli capire che non c’è nessun premio da ritirare e quello del biglietto è solo un espediente pubblicitario usato nel mondo commerciale per attirare sempre nuovi clienti, Woody è deciso ad andare nel Nebraska ad ogni costo, anche a piedi se sarà necessario. Di fronte all’inflessibile cocciutaggine del padre, David decide di accompagnarlo, anche perché ha desiderio di passare un po’ di tempo da solo con lui. Il viaggio da Billings, nel Montana, fino a Lincoln, diventa anche il pretesto per fermarsi nel paese natio di Woody  e Kate, dove vivono ancora tutti i loro familiari e i gli amici di un tempo i quali, una volta saputi dal vecchio i motivi del suo viaggio fino Lincoln, iniziano a vantare dei crediti nei suoi confronti e a rievocare storie vecchie di diversi decenni. Ma soprattutto, tra grandi e piccole incomprensioni e incontri più o meno importanti, il viaggio rappresenta per David un modo per riappropriarsi dell’autentica identità del padre.    

 

Bruce Dern, Will Forte

Nebraska (2013): Bruce Dern, Will Forte

 

“Nebraska” di Alexander Paine è un “on the road” familista che riesce a penetrare nel profondo il cuore ancora pulsante degli Stati Uniti, quello della provincia posta a ridosso dei grandi agglomerati industriali, periferica rispetto ai grandi flussi socio culturali che percorrono il paese e sostanzialmente fiera di rimanere legata al suo gratto conservatorismo. Una provincia  ammorbata nella sua monotonia, che non fa più “sognare” un futuro radioso, con i giovani resi depressi dalla crisi economica, i vecchi intenti a ciarlare intorno ai loro ricordi appassiti e le simpatiche signore dedite a spettegolare acide sui fatti altrui. Avvolto in un bianco e nero luminescente, e retto sulle interpretazioni aderenti di Bruce Dern e Will Forte, il film oscilla tra l’ esatta evidenza di caratteri induriti dalla vita e anestetizzati dalle delusioni (“Sai cosa ci farei io con un milione di dollari ? Lo metterei in una casa di riposo”, dice molto emblematicamente la moglie di Woody) e la voglia di tenerezza che questi stessi caratteri lasciano sommessamente trasparire. Sono centrali nell’economia del racconto alcuni dei valori fondanti della società statunitense, come i soldi ed il successo personale intesi come matrici fondamentali di riscatto e riconoscibilità sociale, ma Alexander Paine li sfuma all’interno di un quadro narrativo dove a prevalere è più l’altruismo disincantato e la voglia di avere il proprio “quarto d’ora” di celebrità di Woody, che l’egoismo interessato di molte delle persone che gli ruotano intorno.

Quel fantomatico milione di dollari ha per Woody solo un valore simbolico, quasi testamentario, perché lui ha bisogno di un motivo per vivere, di uno scopo per continuare a tirare avanti, di una specie di diversivo mentale che lo affranchi dal grigiore di tutti i giorni. David è l’unico che capisce che il padre ha bisogno di essere assecondato nei suoi comportamenti senza stargli troppo addosso, che il vecchio ha necessità di vivere gli ultimi giorni della sua vita rincorrendo una qualsiasi forma di riscatto. E quel milione proprio questo rappresenta per Woody : la possibilità di lasciare di se un ricordo diverso da quello di “vecchio ubriacone” o apatico menefreghista. Woody Grant non è il tipo d’uomo da guardarsi indietro, ed è disposto anche a seguire l’idea più maldestra se questo serve a creargli l’illusione ultima di poter lasciare qualcosa di buono per i propri figli. Un aspetto questo che conferisce al film un tono elegiaco, da “happy end” consolatorio anche, ma ci si arriva poco alla volta e senza retorica o inappropriati arzigogoli paternalistici, insomma, non prima di averci fatto gustare tutto il calice amaro della disillusione incancrenitasi nelle persone. Più facciamo conoscenza della personalità e della storia di Woody, e più scopriamo che dietro la sua scorza dura emerge il carattere di una persona fragile e indifesa, un uomo che non ha mai “saputo dire di no a nessuno” e che l’esperienza in prima linea nella guerra di Corea gli ha lasciato addosso dei segni incancellabili. “Questa era la camera dei miei. Mi frustavano se mi vedevano qua. Ora nessuno mi frusterà”, dice Woody al resto della famiglia durante una visita alla sua vecchia casa, parole amare pronunciate stancamente, che esprimono una sensazione di rancore e di nostalgia insieme, come chi vorrebbe tornare indietro per mettere riparo a qualche cosa ma che sa di poter cambiare ancora rotta al suo personale viaggio. Come già accennato, David è l’unico ad aver capito nel profondo il padre, a cercare di scalfire la sua indomita asperità caratteriale, a decifrare la sua irresistibile laconicità. Probabilmente perché David è quello che gli somiglia di più, o forse perché, come lui, ha bisogno di una comunicazione più schietta e diretta, senza filtri o ombre. David ha scovato delle tracce nel passato del padre che gli restituiscono un’identità del tutto inedita, quella, cioè, di una persona che si è nascosta dietro un atteggiamento burbero per sfuggire alle sue pressanti fragilità. David ha scoperto che il padre è un uomo che merita il diritto di coltivare una sorta di illusione riparatrice. Ed è questa scoperta a trasformarlo, dal figlio legato a lui da un "naturale" affetto filiale, al figlio che comincerà a difendere contro tutti e tutto i desideri disarticolati del padre. Questa evoluzione sentimentale del rapporto padre-figlio, oltre ad essere la componente più bella e coinvolgente del film, rappresenta l’elemento che rende speculari la malleabilità dei rapporti filiali che permeano lo sviluppo del racconto e l’analisi fatta del paese che ne fa da sfondo discreto. A mio avviso, questo legame funzionale tra i due aspetti indicati, è ottimamente esemplificato nella sequenza in cui David e Woody arrivano alla fine del loro viaggio, nell’ufficio dove l’ enunciazione di una vincita in danaro può trasformarsi in realtà. “Crede a quello che le persone gli dicono”, dice David alla donna che avrebbe dovuto consegnare al vecchio il “suo” milione di dollari. Parole che, da un lato, provano la rafforzata complicità tra padre e figlio, il fatto che David ha ormai penetrato del tutto lo spirito del padre, e questo gli basta a ergersi a suo umile paladino. Dall’altro lato, quelle parole segnano il grado disillusione che una persona leale come Woody nutre ormai nei confronti del suo paese. Perché non importa sapere se Woody credeva o meno alla veridicità di quel biglietto “vincente”, ma concludere che quel viaggio condotto fino in fondo rappresenta una denuncia contro le articolazioni effimere che sorreggono il modello economico dominante, che specula sulla credulità delle persone semplici che hanno tutto il diritto di investire in qualche pia illusione. Una denuncia fatta mettendoci la faccia ed il cuore. E investendo quanto basta in quel che rimane dei propri migliori sogni.

Ottimo film di un bravo (ma discontinuo) regista americano.           

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