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Nebraska

Regia di Alexander Payne vedi scheda film

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La recensione su Nebraska

di Lehava
8 stelle

 

"Nebraska" è uno di quei film che, bene o male, tanto o poco, alla fine ti risucchiano all'interno della propria poetica. E poco importa l'ambientazione, in un lontanissimo Midwest sconosciuto e sconfinato; poco importa, persino, l'aderenza alle tematiche: l'alcolismo, il disfacimento della famiglia, la povertà, la perdita di ogni valore, l'idea di una redenzione impossibile, le responsabilità schivate e riacquisite. Anche il tempo viene sospeso, in un bianco e nero senza prima né, per questa storia che pare solo casualmente contemporanea. Perchè tutto è immutato da decenni, forse da secoli, lì, nel centro del continente nordamericano dove il grano cresce alto, le nuvole ombreggiano cittadine tutte uguali, gli inverni sono rigidi e desolati. E' cinema di emozione: di commozione, di irritazione, di partecipazione. In altre parole, crea empatia: vuoi nei confronti del confuso e sgualcito Woody, dai dolori segreti e mai confessati annegati nella birra; vuoi nei confronti del tenero figlio David, ansioso di offrire un briciolo di redenzione ad un padre disastroso: ma pur sempre un padre. Sono lo due le facce di una stessa medaglia: l'America rurale e forse un po' ignorante, ingenua e scontrosa, la stessa vista in "Paper Moon" piuttosto che ne "L'ultimo spettacolo" o in "Una storia vera". Che però qui si carica di amarezza, di una malinconia a tratti dolce, a tratti acida. Un luogo dell'immaginario collettivo, dove i non-sogni si smarriscono sul bancone di un bar, quando va bene, oppure si affogano nel sangue proprio ed altrui, quando va male (come al Kit di "Badlands: impossibile sfuggire ai rimandi malickiani di lentezza e vuoto dati dai campi lunghi). Tutto già detto, in fondo: splendida la sceneggiatura di Bob Nelson. Un tocco speciale nella delineazione dei personaggi, non solo attraverso le parole (per altro, i dialoghi sono tra i punti forti di questo lavoro) ma anche nelle inquadrature sui gesti, sui movimenti, sulle espressioni dei volti: i due cugini prima indifferenti poi melliflui; la oramai anziana ex fidanzata mite: i fratelli silenziosi vuoi ripresi nel salotto di casa (dal punto di vista del tubo catodico: divertimento e ironia tagliente vanno a braccetto), vuoi seduti a guardare la strada, vuoi al tavolo ingozzandosi. Merito anche della regia, per carità: Payne predilige equilibrio e compostezza, evitando i primi piani ed optando per piani-sequenza "movimentati" anche laddove, realisticamente, nulla accade. Si perde, ogni tanto, negli spazi aperti: ma non è un male, in fondo. Perchè chiama lo spettatore, ancora una volta, ad immedesimarsi nello sguardo smarrito dei protagonisti. Tutti ben interpretati, a partire dal bravissimo Bruce Dern: occhi sgranati, incedere incerto, capelli radi e barba consistente. Per proseguire con il dolente Will Forte; la paffuta e sanguina June Squibb, alla quale sono affidate le battute più dissacranti (la scena del cimitero è quasi tremenda nella tragedia buffa del quadro familiare descritto); il corpulento Stacy Keach ad impersonare l'anima nera (nonchè ruba-compressori!) dell' "amico" Ed Pegram. Il tono vuole rimanere leggero. E ci riesce: riflessivo ma leggero. Non secondario, in questo senso, il commento musicale: la colonna sonora firmata da Mark Orton è tanto azzeccata quanto non banale. Si sarebbe potuti scivolare con facilità nel "già detto/ascoltato" (da Springsteeen in poi) ed invece, fortunatamente, si è optato per soluzioni strumentali del tutto originali, dove spicca naturalmente la chitarra, ma anche l'armonica e la tromba. Richiamando il folk, più "celtico" (definizione troppo generica, ma di immediata identificazione e comprensione) che tradizionalmente nord-americano. Spicca il tema "Their pie".
 
"Nebraska" è stato uno dei film più belli che abbia visto in questa stagione. Lo è, oggettivamente. Eppure, paradossalmente, anche uno dei più deludenti. Come se Payne avesse voluto ostentare una adesione, soprattutto formale ed estetica, a dei "modelli ispiratori". Gigioneggiando nelle citazioni. Essendo in realtà perfettamente in grado, lui, di percorrere una strada assolutamente indipendente e personale. Solo, non volendo deliberatamente farlo. La fotografia di Phedon Papamichael è bellissima. Talmente bella che, a tratti, pare prendere il sopravvento sul tutto. E la scelta del bianco e nero (che io amo moltissimo) qui, mi dispiace, è incomprensibile. Perchè la vicenda del vecchio Woody, rimbambito dalla sguardo ora presente ora assente, la sua immutata voglia di vivere, il rapporto difficile con un figlio che lo vuole disperatamente amare, ecco, la vicenda del vecchio Woody è una ballata agrodolce a colori vividi: le mille sfumature della realtà che ci circonda e che ci permea, i fasci di luce che il nostro cervello codifica come ... colori! Il bianco e nero è solo un escamotage catodico o di pellicola: una finzione. Raffinata, elegante, ma falsa. Mentre "Nebraska" è maledettamente vero, vivo e pulsante. 

 

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